Erdogan il sultano
Ora paga il conto

La legge universale della politica, enunciata da Bill Clinton durante la trionfale campagna elettorale che lo portò alla Casa Bianca nel 1992, torna a farsi viva a spese di Recep Tayyep Erdogan. «È l’economia, stupido!», ammoniva Clinton. Ed è paradossale che il Sultano, passato indenne attraverso mille capriole politiche, l’appoggio all’Isis, le risse con Israele e la Germania, una quasi guerra con la Russia, una guerra vera contro i curdi in Siria, oggi subisca in pieno l’urto di una crisi finanziaria peraltro largamente annunciata, proprio lui che Sultano è diventato facendo uscire la Turchia dal sottosviluppo e trasformandola in un Paese con ambizioni di potenza non più solo militare ma anche economica.

Adesso Erdogan sostiene che lo sprofondo della lira turca (meno 30% sul dollaro in questo 2018) è frutto di un complotto e proclama: «Gli altri hanno il dollaro, noi abbiamo Allah». Non un gran sistema per tranquillizzare gli investitori stranieri, che già hanno poco gradito le sue recenti mosse «sultanesche»: nominare ministro dell’Economia il genero Berat Ailbayrak (già ministro dell’Energia, in passato accusato di commerciare il petrolio estratto illegalmente dai criminali dell’Isis), decisione che da sola fece perdere alla lira turca due punti sul dollaro; e limitare i poteri della Banca Centrale.

In grande sintesi, il problema è che la Turchia importa molto più di quanto esporta. Quindi patisce un deficit che può essere colmato in due modi: o attraendo investimenti dall’estero (che invece sono in netto calo: quelli italiani, per esempio, si sono ridotti del 17% nel 2017 rispetto al 2016) o facendosi prestare denaro, sempre dall’estero. Pratica, quest’ultima, diventata assai onerosa: secondo l’agenzia di rating Fitch, la Turchia ha bisogno di 230 miliardi di dollari solo per ripagare i debiti che vanno a scadenza nel 2018. Molte banche e aziende hanno chiesto prestiti in valuta straniera, cosa che, in regime di inflazione, li rende di giorno in giorno più costosi. Inflazione che, a sua volta, è incentivata dalla massiccia politica di lavori pubblici cara a Erdogan, che produce consenso ma, mettendo in circolazione altro denaro, anche ulteriore inflazione.

Per non farsi mancare nulla, infine, il Sultano ha trovato modo di litigare con gli Usa (di cui diffida dal mancato golpe del luglio 2016) sulla sorte di Andrew Brunson, un pastore evangelico che la polizia turca accusa di spionaggio. Trump ne ha chiesto la liberazione, offrendo sostanziosi incentivi. Erdogan ha fatto uno dei suoi colpi d’orgoglio e di testa, dando così al presidente Usa l’occasione di mettere corposi dazi sulle importazioni di alluminio e acciaio dalla Turchia, dazi che, con l’ultimo crollo della lira turca, sono stati portati al 20% per l’alluminio e al 50% per l’acciaio. In pratica, sanzioni economiche.E così eccoci qui, con la Turchia di colpo sdraiata sul lettino dove le Borse fanno accomodare i grandi malati dell’economia internazionale.

La spina più pungente del caso turco, però, sta non tanto nei numeri del debito ma nella qualità politica della crisi. Erdogan ha sempre usato la leva della spesa pubblica per sostenere la crescita generale del Paese e incrementare il proprio bacino di voti. Un bel gioco, che ha dato pure molti risultati ma che necessitava di periodici controlli e messe a punto. Tutti gli economisti consigliavano, da tempo, una stretta monetaria per tirare le redini all’inflazione. Erdogan, con lo stato di emergenza in vigore da due anni e un mandato presidenziale inaugurato il 18 luglio sulla base del più ampi poteri ottenuti con la vittoria nel referendum costituzionale dell’aprile 2017, non ha voluto rovinarsi la facciata. Ora paga il conto.

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