Cittadinanza
Reddito e bufere

Il reddito di cittadinanza, contenuto nel «contratto» di governo, attende la prima attuazione e già minaccia di essere detonatore delle contraddizioni che abitano la scena politica e la compagine di governo. Da un lato, infatti, Il Reddito di cittadinanza costituisce una prosecuzione di quanto approvato a fine legislatura scorsa dalla maggioranza a sostegno del governo Gentiloni, e cioè del Reddito di inclusione. Rispetto a questo, il Reddito di cittadinanza annunciato nelle linee programmatiche del nuovo governo dovrebbe essere più generoso quanto ad importi e più restrittivo quanto a beneficiari (cittadini italiani in stato di bisogno). Vi è quindi una continuità/discontinuità. La direzione di marcia è comune: offrire una misura di sostegno alla povertà assoluta, emergenza del Paese, che non sia alimento di assistenzialismo e dunque condizionata alla laboriosità dei beneficiari. Una prima discontinuità sarebbe negli importi generosi annunciati nel programma di governo, per i quali ora però la maggioranza fa i conti con le gradualità necessarie dei vincoli e delle compatibilità finanziarie. Per un intervento più efficace occorrerebbe un coerente investimento dell’indirizzo politico del governo. Occorrerebbe cioè che il Reddito di cittadinanza fosse la priorità condivisa, mentre appare chiaro che questa provvidenza è in quota M5S, frenata dalle correnti contrarie di altre priorità leghiste (a cominciare dalla flat tax).

E così la maggioranza cerca la quadratura del cerchio in un Reddito di cittadinanza a tinta sovranista e cioè limitato ai soli cittadini (seconda discontinuità). È però assai fondato il rischio che una simile scelta incorra nella censura per incostituzionalità della Corte costituzionale. Vi è infatti abbondante e recente giurisprudenza della Corte stessa per la quale le misure assistenziali, destinate «a fornire alla persona un minimo di sostentamento (…) non ammettono distinzioni di sorta in dipendenza di qualsiasi tipo di qualità o posizione soggettiva e, dunque, anche in ragione del diverso status di cittadino o di straniero» (sent. 329/2011; ma anche 432/2005; 306/2008; 11/2009; 187/2010, ecc…).

Tale conclusione si regge su principi direttamente presenti nella nostra Costituzione (uguaglianza, solidarietà) e su principi vincolanti tratti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Dice la Corte costituzionale: «Ove si versi in tema di provvidenze destinate a far fronte al sostentamento della persona, qualsiasi distinzione di regime che venisse introdotta fra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato finirebbe per risultare in contrasto con il principio di non discriminazione sancito dall’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo».

Tale estensione vale, per le prestazioni di minimo vitale, come quella di cui si discute, per gli stranieri legalmente presenti sul territorio nazionale. Si potrebbero al più introdurre criteri ragionevoli (e soggetti al sindacato della Corte) di residenza, non certo di cittadinanza, e non per le misure di minimo vitale: «È possibile – dice ancora la Corte - subordinare, non irragionevolmente, l’erogazione di determinate prestazioni – non inerenti a rimediare a gravi situazioni di urgenza – alla circostanza che il titolo di legittimazione dello straniero al soggiorno nel territorio dello Stato ne dimostri il carattere non episodico e di non breve durata; una volta, però (…) che il diritto a soggiornare alle condizioni predette non sia in discussione, non si possono discriminare gli stranieri, stabilendo, nei loro confronti, particolari limitazioni per il godimento dei diritti fondamentali della persona, riconosciuti invece ai cittadini».

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