L’allarme jihad
in Africa ci riguarda

Quando il 20 novembre scorso a Chakama, un villaggio nel Sud del Kenya, venne rapita Silvia Romano, volontaria milanese di 23 anni impegnata in progetti per l’infanzia con l’Associazione Milele, non mancarono in Italia commenti cattivi e stupidi, riassumibili nell’abusata espresssione «se l’è cercata». Invece il sequestro era il segnale di un’inquietante escalation del terrorismo di matrice islamista che opera in diversi Paesi dell’Africa centrale e mediterranea: Nigeria, Niger, Ciad, Mali, Repubblica centrafricana, Sudan, Kenya, Somalia, Libia ed Egitto, con sconfinamenti nel poverissimo Burkina Faso e in Camerun.

Il rapimento di Silvia Romano - della quale non si hanno notizie dirette da due mesi - avrebbe meritato ben altre riflessioni. Si trattava di un’azione su commissione, orchestrata con chirurgica precisione grazie ad appoggi locali. La firma, anche in assenza di una rivendicazione, è quella dei famigerati Shabab (i ragazzi, in lingua somala), organizzazione militare e jihadista che ha perso il controllo della Somalia e ora vendica la sconfitta colpendo i Paesi complici della disfatta. L’altro giorno gli Shabab hanno messo a segno un attentato a Nairobi, capitale kenyota, prendendo di mira un hotel e un vicino palazzo con uffici di società locali e internazionali, oltre che di organizzazioni non governative: 14 morti e 700 persone messe in salvo.

L’attacco ha lasciato un senso di vulnerabilità nella capitale, anche perché quel luogo era superprotetto da polizia e militari. Proprio ieri ricorreva il terzo anniversario della strage di El Adde, in Somalia, quando un’intera brigata delle forze speciali kenyote fu spazzata via dal tritolo: morirono 140 soldati. Il Kenya è nel Paese del Corno d’Africa sotto l’egida della missione «Amisom» dal 2011, anno della fuga degli Shabab da Mogadiscio. Nairobi e dintorni sono nel mirino dei terroristi affiliati ad Al Qaeda, che hanno messo a segno diversi attentati. Anche il rapimento di Silvia Romano potrebbe rientrare tra le azioni di vendetta degli Shabab: l’Italia infatti appoggia il percorso di pacificazione della Somalia non solo politicamente ma addestrando militari.

In Africa però non ci sono solo gruppi affiliati ad Al Qaeda. Con la sconfitta in Iraq e Siria (a parte qualche sacca di resistenza) sono emerse preoccupazioni per la presenza dello Stato islamico in Libia e nell’Africa occidentale, nella zona tra Niger, Mali e Burkina Faso. Qui il gruppo affiliato si chiama «Provincia del grande Sahara» ed ha assorbito diverse sigle radicali già presenti, attraendo anche jihadisti di Al Qaeda. In quest’area del Sahara, lo Stato islamico potrebbe trovare terreno fertile per il suo sviluppo, vista la difficoltà dei governi della zona a controllare il territorio e le attività criminali molto diffuse, tra cui il traffico di esseri umani.

Secondo diversi analisti, il processo di «decentramento» dello Stato islamico non dovrebbe essere sottovalutato. In Nigeria, ad esempio, Boko Haram, diffuso nel Nord (è anche noto come Gruppo della gente della sunna per la propaganda religiosa e il Jihād), dal 2015 si è alleato con l’Isis. Mesi fa, quando era ancora all’opposizione, il leader della Lega Matteo Salvini disse che in Nigeria non c’è alcuna guerra, giustificando così il suo diniego a richieste d’asilo per chi arrivava da quel Paese. Nel Nord la guerra c’è eccome: Boko Haram prende di mira i cristiani devastando chiese e villaggi, ma non solo la minoranza. Per non parlare dei traffici di esseri umani gestiti dalla mafia locale, che mercanteggia anche in droga e sfruttamento della prostituzione diretta in Europa, grazie pure ad alleanze con la criminalità italiana. L’Africa oggi più che mai ci riguarda.

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