Pd in bilico
Sirena grillini

Il risveglio del Pd, dopo il lungo sonno postrenziano, obbliga i dem ad una responsabilità: costruire il partito che non c’è, cioè un’opposizione riconoscibile e credibile nell’interesse del Paese. Nel mondo a parte che è l’Italia, rispetto all’Europa occidentale, e nel quadro del grillismo declinante e del berlusconismo crepuscolare. Il 22,7% delle Europee è una base per ripartire, fra ottimismo e incredulità, ma non per andare oltre: da solo non ce la fa.

È all’incirca la stessa quota della «non vittoria» di Bersani del 2013, quando il Pd avrebbe dovuto vincere in carrozza: la chiamata di Renzi alla guida del partito ha rappresentato in quel frangente non la causa, ma la conseguenza del fallimento della ditta. Il resto è un’altra storia. Il diesel di Zingaretti è riuscito a dare fisionomia e unità al partito, segnando un passaggio importante nella ristrutturazione del sistema politico: tornando in campo pur dalle fasce laterali, cerca di far rientrare l’anomalia italiana dei due populismi per ripristinare la formula della competizione fra destra (a trazione leghista) e sinistra riformista. Zingaretti oggi è in grado di replicare al micidiale sfottò di Crozza («Il Pd è l’unico partito in silenzio elettorale da un anno») e può ritenersi coerente con il mandato ricevuto: consolidare una comunità spegnendo il clima da rissa, de-renzianizzare il partito senza urtare troppo quel sodalizio, tenere insieme tutti, transfughi compresi.

Strategia ecumenica, non divisiva. Le candidature di Pisapia a sinistra e di Calenda al centro hanno delimitato il campo. Il segretario si comporta come Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore: attende di vedere come va, sosta in riva al fiume dove rotolano le teste degli avversari, augurandosi il ritorno a casa di chi è salito sul carro di Di Maio.

In sostanza: senza far troppo ha ottenuto molto, nei limiti delle condizioni date. Ha fidelizzato la base tradizionale, ma non s’è allargato. Può aver incassato qualcosa dal collasso pentastellato (4%), tuttavia ha raschiato il barile a sinistra. I quadri dirigenti del Pd (un partito-cerniera spurio, di frontiera) hanno un problema difficilmente risolvibile, come insegna la loro parabola: quando sono costretti a decidere, quando cioè il pendolo oscilla troppo a sinistra o troppo al centro, sono condannati a dividersi. Il parcheggio alla Zingaretti nell’area delle vecchie appartenenze della famiglia eurosocialista, ora dispersa ora rediviva, rappresenta una temporanea uscita strategica. Finché dura, non muoversi è un’assicurazione sulla vita. O meglio: su una sopravvivenza dignitosa.

Il futuro prossimo, tuttavia, sarà diverso e insieme obbligato: il tema delle alleanze serve un menu indigesto. Andare oltre il Pd, creare un sistema di alleanze diventa un’urgenza. Contrariamente a quel che sostiene Zingaretti, il suo partito non è pronto per le elezioni politiche, dove anche adesso rischia parecchio. Uscire dal recinto di casa per tessere nuovi rapporti costringe ad una chiarezza fin qui inadeguata: il Pd è nato nell’era del maggioritario, ma ora siamo nel proporzionale con le coalizioni che si formano dopo il voto in Parlamento.

Una logica compresa subito da Salvini, che non a caso guida il gruppo più antico. Un partito come la Lega che in un anno passa dal 17,3% al 34,3%, fenomeno piuttosto raro, implica un’analisi riflessiva. La natura della qualità democratica del movimento grillino esige uno studio severo: finora però, al di là delle dichiarazioni formali, c’è stata la finzione di separare i figliol prodighi (elettori) dai «cattivi maestri» (i leader), ponendo una distinzione difficile da rintracciare nella realtà. Il problema si porrà e il dibattito alleanza con i 5 Stelle sì-no si preannuncia non indolore. Uguale chiarezza sarebbe richiesta anche a Renzi, dato in movimento, solo o con Calenda, per formare una costola centrista. Con tutti gli interrogativi del caso, a cominciare dalla consistenza dei moderati nel frattempo fattisi radicali pure loro. In modo speculare lo stesso snodo riguarda Berlusconi, che cerca di tenere unite posizioni incompatibili (Toti). L’idea di Zingaretti di ricompattare il vecchio mondo a sinistra funziona fino a quando il partito stabilisce che l’avversario è la Lega, mentre i grillini sono compagni che sbagliano. Un abbaglio, però, una volta visto il bluff dei Cinquestelle. Ma il giorno in cui il Pd sarà costretto ad allestire la discussione sul che fare con il movimentismo grillino è destinato a dividersi: scomporsi in nome della chiarezza. Lo stesso vale per l’opzione centrista. È il costo di darsi un’identità e restituire trasparenza al rapporto con l’elettorato: per questo temporeggiare vuol dire garantirsi una sopravvivenza a bassa intensità, ma pur sempre un soffio di vita vissuto ancora insieme.

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