Guy Verhofstadt arriva al bar dei fiori dell’Europarlamento di Strasburgo e mostra il suo solito aplomb da decano della politica europea. Ma stavolta la barba incolta e le occhiaie lo tradiscono. Stanco? «Sono qui da giorni, prima per la plenaria e poi per i panel dei cittadini della conferenza sul futuro dell’Europa». Lui rappresenta il parlamento europeo nel board esecutivo della conferenza sul futuro dell’Ue, assieme ai co-presidenti di Consiglio e Commissione. «Praticamente non mi sono fermato mai». Come sempre, del resto. È stato vicepremier del Belgio negli anni Ottanta, poi primo ministro per quasi un decennio fino al 2008, eurodeputato e anche presidente del gruppo liberale dal 2009 al 2019, con nel mezzo una candidatura alla presidenza della Commissione. E oggi, dal suo scranno di europarlamentare liberale, continua a conquistarsi un proprio spazio. Non solo per il ruolo nella conferenza sul futuro dell’Europa, ma perché è tra i pochi che da anni con costanza invocano un’Europa federale. Con Daniel Cohn-Bendit nove anni fa ha scritto anche un manifesto, Debout l’Europe!, per ribadirlo.

Von der Leyen ha da poco tenuto il suo discorso sullo stato dell’Unione. Qual è lo stato della democrazia nell’Unione?

Ci serve un nuovo impetus, bisogna assolutamente dare nuovo slancio alle pratiche democratiche in Europa. Il coinvolgimento dei cittadini, e la conferenza sul futuro, servono a questo.

Che garanzie si sente di dare, sul fatto che le opinioni raccolte nella conferenza si tradurranno in azione politica? Per ora non c’è un impegno a riformare i trattati.

Non abbiamo messo una riforma dei trattati nella dichiarazione comune perché altrimenti ci saremmo persi in una discussione su questo, mentre rivendico l’idea che prima si debba decidere che direzione deve prendere l’Europa, e dopo si valuta se per fare ciò serve cambiare i trattati oppure no. Ma è sui contenuti che dobbiamo discutere, prima di tutto.

C’è un inedito scontro fra istituzioni in Ue perché la Commissione non tiene conto degli eletti. L’Europarlamento è costretto a portarla davanti alla Corte di giustizia, per farla agire sullo stato di diritto. Prima di sperimentare la democrazia deliberativa con il panel civico non è il caso di rafforzare quella rappresentativa?

Spero che un rafforzamento dell’Europarlamento sarà tra le conclusioni a cui arriverà la conferenza sul futuro dell’Europa. Quello europeo è l’unico parlamento che non può dire la sua sulla portata del bilancio, una cosa mai vista altrove. Mi auguro che la conferenza, visto che è una occasione di riflessione, porti nuova spinta per rafforzare il ruolo degli eletti. Il parlamento ad esempio deve poter prendere iniziative legislative. Che dire poi dell’annoso problema dell’unanimità? Continua a frenarci. Per non parlare del fatto che abbiamo una Commissione di ben 27 commissari, uno per stato membro. Troppi in rapporto all’efficacia.

La Commissione von der Leyen è troppo succube dei governi?

Il parlamento non è abbastanza forte e la Commissione ascolta troppo i governi. Ma è sempre stato così, non solo con questo gabinetto.

Quando era presidente, Jean-Claude Juncker ha provato a svincolare l’Ue dal metodo dell’unanimità, almeno in alcuni ambiti.

Il problema è che l’unanimità viene usata persino quando si potrebbe e dovrebbe decidere a maggioranza. Prenda l’immigrazione: in quell’ambito potrebbero agire a maggioranza, i governi, e invece si preferisce l’unanimità. Sa perché non esiste una politica europea sull’immigrazione? Perché viene scelta l’unanimità.

Non è che l’Europa non faccia nulla in termini di immigrazione. Dà soldi alla Turchia e ora ai «partner regionali afghani» per i rifugiati, ha l’agenzia Frontex coinvolta in respingimenti illegali. Forse per accogliere potrebbe fare di più?

L’Ue di fatto non ha una politica per i rifugiati: sono gli stati membri che scelgono, non c’è un serio approccio condiviso. Quanto ai respingimenti, la questione delle frontiere esterne è un tema che non può essere affrontato solo nell’ottica attuale. Serve anche una seria politica condivisa sui migranti economici.

Lei sul tema dell’immigrazione si è scontrato con Salvini, che l’ha anche querelata per un suo tweet. Oggi il leader leghista governa con Mario Draghi e prova persino a presentarsi come europeista. Che pensa di questa mutazione?

Che i politici populisti sono liberali quando gli conviene. Viktor Orbán nell’89 era liberale, per dirne una. Quando fiutano che c’è consenso popolare dietro la retorica anti migranti, la usano. Prima parlano di uscire dall’Ue, poi quando capiscono che finalmente la gente l’Europa la vuole proprio, mutano di nuovo. Sia chiaro, si deve discutere su quale Europa vogliamo: io sono critico verso le cose che non vanno quanto gli euroscettici, è sulla direzione nella quale cambiare che divergiamo.

Quindi Salvini diventa europeista per seguire i sentimenti della gente? O i soldi del Recovery?

Anche i soldi del Recovery, certo. Entrambe le cose.

A proposito di mutazioni. Nel 2017, quando pensava di accogliere i Cinque stelle tra i liberali, è stato frenato dal suo stesso gruppo: Beppe Grillo era visto come euroscettico. Ora il Movimento è forza di governo, ha moderato i toni, ha dato voti cruciali a von der Leyen e si parla di un ingresso nel gruppo socialdemocratico. Ci aveva visto giusto?

Forse. Sicuramente le cose sono molto cambiate nel corso del tempo. Io a ogni modo non ho mai discusso del possibile ingresso nel gruppo con Beppe Grillo, bensì con Casaleggio e con gli europarlamentari.

Chi sono oggi in Europa i leader alfieri del federalismo?

Emmanuel Macron sicuramente è europeista. Anche italiani, spagnoli, belgi. Sarà importante trasformare quella che è stata una reazione compatta alla crisi Covid, a cominciare dall’indebitamento comune, in qualcosa di permanente. La sfida principale verrà dalla Germania: dopo le elezioni, parlerà la stessa lingua della Francia e si impegnerà per l’integrazione europea o no?

Su Merkel che giudizio dà?

La rispetto molto ma non direi che abbia spinto l’acceleratore sull’integrazione europea.

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