Giorgia Meloni ha deciso di lanciare la candidatura di Carlo Nordio, l’ex procuratore aggiunto di Venezia.

Nordio si distingue da anni per la sua vicinanza al mondo della destra: ha difeso le scelte di Matteo Salvini sul blocco delle navi dei migranti, durante il dibattito sul ddl Zan ha fatto un parallelismo tra omosessuali e pedofili, ha firmato i referendum sulla giustizia promossi dalla Lega e infine si è espresso contro lo scioglimento di Forza nuova.

Nordio, che viene descritto come un grande appassionato di letteratura, è ben visto anche dal mondo produttivo del nord. Per due anni gli industriali veneti lo hanno nominato presidente del premio Campiello, uno dei più prestigiosi premi letterari in Italia.

Nato a Treviso il 6 febbraio del 1947, all’inizio degli anni Ottanta ha portato avanti l’inchiesta sulle colonne venete delle Brigate rosse, e poi su alcuni rapimenti. Poi titolare dell’inchiesta sul Mose di Venezia, consulente della Commissione parlamentare per il terrorismo e presidente della Commissione ministeriale per la riforma del codice penale.

Le sue prese di posizione gli sono costate le critiche di parte dell’opinione pubblica e gli hanno fatto guadagnare le simpatie di Salvini e Meloni. Sullo scioglimento di Forza nuova, il partito neofascista che a ottobre ha guidato l’assalto dei no pass alla sede della Cgil, ha commentato: «Dal punto di vista politico è assurdo sciogliere una forza, per quanto sciagurata.

E questa sicuramente lo è, perché è violenta, ma è fatta di persone e queste si raggrupperebbero sotto altre forme o titoli». Ma è sul ddl Zan che ha attirato più critiche, la legge contro l’omotransfobia avversata dalla Lega che anche l’ex procuratore ha attaccato.

«Sicuramente la pedofilia fa parte dell’orientamento sessuale, per quanto deviato», ha detto durante la discussione sulla legge, e per Nordio la legge avrebbe punito allo stesso modo i reati di odio come i «termini brutali, ma anche comprensibili contro un pedofilo».

Il conservatore liberale amico di BXVI

Il centrodestra ha nella sua “rosa” di candidati Marcello Pera, l’ex presidente del Senato di Forza Italia. L’elezione arriverebbe in prossimità del suo compleanno: il forzista (che oggi non ha più la tessera) è nato a Lucca il 28 gennaio 1943.

Filosofo della scienza, ha condiviso la sua carriera politica con Silvio Berlusconi, anche se è celebre la sua frase del 1994: «Berlusconi è a metà strada tra un cabarettista azzimato e un venditore televisivo di stoviglie, una roba che avrebbe ispirato e angosciato il povero Fellini».

È entrato in parlamento nel 1996 e ci è rimasto fino al 2013. Dal 2001 al 2006 ha ricoperto la carica di presidente del Senato in quota Pdl. Il suo nome non dispiace nemmeno a Matteo Renzi, il leader di Italia viva, con cui in passato ha condiviso la battaglia per il sì al referendum costituzionale del 2016.

Pera ha sempre approfondito la dottrina cattolica e il rapporto con le istituzioni. Nel 2004 ha scritto con il cardinale Joseph Ratzinger il libro Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, Islam (2004).

Pera invece non apprezza papa Francesco. La posizione di accoglienza ai migranti per lui sconfina nel «fare politica». Nel 2019 ha detto che Jorge Mario Bergoglio «ha ridotto la chiesa a una specie di ong».

Anche l’ambientalismo di Francesco non gli piace: «Ha trasformato Greta in un idolo, corre dietro a visioni solidaristiche, politiche e sociali, al buonismo». Sul piano politico e culturale, si definisce un «conservatore liberale».

Nel 1995 ha firmato con Luigi Manconi, oggi il candidato di Sinistra italiana e dei Verdi, un appello per l’uso delle droghe leggere. In più occasioni si è detto a favore delle unioni gay. Nel suo curriculum ci sono rapporti poco chiari con il tessuto economico. I giornalisti Marco Travaglio e Peter Gomez nel 2008 hanno scritto che il suo nome compare in un’indagine archiviata dalla procura di Lucca nel 2007 per presunte pressioni indebite sul sindaco di Lucca e i vertici di due aziende per portare a termine un affare con Enel.

La donna in perenne conflitto d’interesse

Letizia Moratti, schiva nei modi e algida, si sente all’altezza di qualsiasi ruolo. Sindaca di Milano di Milano dal 2006 al 2011, quando la chiamano alla presidenza della Rai nel 1994, incarico che ricopre per ventidue mesi, il settimanale Cuore riporta i suoi scambi con il patron della comunità di recupero per tossicodipendenti di San Patrignano, Vincenzo Muccioli, di cui i Moratti sono stati i più convinti e generosi sponsor. Il figlio di Vincenzo, Andrea, racconterà poi come la «terrazza della nostra casa diventa il luogo, con vista sull’Adriatico, dove assisto al risiko delle nomine Rai e alla costruzione della nuova mappa del potere della tv di stato». Poi eccola diventare dal 2001 al 2006 il più longevo e contestato ministro dell’Istruzione di sempre, e ancora presidente del Consiglio di gestione di Ubi Banca, proprio l’istituto che aveva come cliente l’azienda petrolifera di famiglia. Il suo ultimo ruolo pubblico, assessore al Welfare e vicepresidente della Lombardia, nel 2021, dice molto di come Moratti interpreti il ruolo di civil servant: la sua riforma della sanità, approvata a maggioranza, dopo maratone di ostruzionismo dell’opposizione, ha archiviato tutta la discussione sui rapporti tra sanità pubblica e privata emersa allo scoppiare della pandemia per cristallizzare i rapporti di forza impostati da Roberto Formigoni prima e Roberto Maroni poi. La Corte dei conti ha espresso giudizi lapidari sul rapporto di Moratti con la cosa pubblica. Nella sentenza di appello con cui nel 2017 Moratti è stata condannata per aver assegnato incarichi irregolari durante i suoi anni da sindaco di Milano. Chissà se ha visto invece le operazioni a favore della Saras, società petrolifera di famiglia di cui il marito Gian Marco era presidente, realizzate da Ubi Banca quando lei stessa era presidente del Consiglio di gestione. Negli atti investigativi ottenuti si legge che si è trattato di un «evidente conflitto di interesse».

Il partito del Mattarella bis comincia a contarsi

Enrico Letta, ospite domenica sera di Fabio Fazio a Che tempo che fa, lo aveva detto, perfino con un eccesso di enfasi: «Il bis di Sergio Mattarella sarebbe il massimo». Non è dato sapere se il suo fosse un semplice omaggio istituzionale. Di certo c’è che, con il passare del tempo, la soluzione appare meno improbabile.

Non che il capo dello stato abbia fatto capire di aver cambiato posizione. Il suo secco rifiuto di ogni ipotesi di rielezione rimane. Però, in parlamento, il partito di chi comincia a pensar che l’unica soluzione percorribile sia quella di mantenere lo status quo fino al 2023 (Mattarella al Quirinale, Mario Draghi a Palazzo Chigi) comincia a farsi sentire.

Martedì, ad esempio, nella seconda votazione, il presidente della Repubblica uscente è stato il candidato più votato (41 preferenze). E siccome nulla succede per caso – soprattutto nelle prime votazioni che richiedono una maggioranza qualificata e quindi sono di fatto ininfluenti – è chiaro che si è trattato di un segnale (lunedì Mattarella aveva preso 16 voti).

Ora tutti hanno la loro interpretazione. C’è chi dice che quei voti provengano dall’ala contiana del M5s che ha bisogno di contarsi per dimostrare di avere i voti che l’ex premier dice di controllare. Ma è anche vero che Giuseppe Conte, più nettamente di chiunque altro, continua a ripetere che Draghi non deve assolutamente lasciare palazzo Chigi. E allora un bis di Mattarella è indubbiamente la soluzione migliore per ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo.

Certo, se questo è lo scenario che potrebbe configurarsi, la strada è ancora lunga. Solo un fattore esterno come l’incapacità dei partiti di arrivare a una soluzione condivisa o il peggioramento della pandemia o i mercati che in maniera inequivocabile fanno capire che Draghi deve rimanere premier, potrebbe convincere Mattarella a cambiare idea. Non certo 41 voti “tattici” depositati nell’urna di Montecitorio.

Draghi rimane fermo sperando che gli altri si muovano

Se c’è una cosa che Mario Draghi non sopporta è quella di essere accusato di muoversi scompostamente, peggio ancora se questo coincide con un’evidente sgrammaticatura istituzionale. La sua caratteristica principale in fondo, è proprio far in modo che le cose accadano rimanendo fermo e in silenzio.

C’è da giurarci, quindi, che quando ieri mattina ha sfogliato i giornali, il premier non abbia affatto gradito la narrazione secondo cui i suoi incontri e le sue telefonate con i leader dei principali partiti nella giornata di lunedì, erano parte della sua campagna elettorale per arrivare al Quirinale.

Men che meno che il fatto che, per ottenere il suo obiettivo, Draghi abbia avviato una sorta di contrattazione sul governo che verrà dopo di lui. Quindi ieri, evidentemente sollecitati a farlo, i principali partiti hanno gareggiato nel tentativo di allontanare dal premier qualsiasi sospetto.

Ha iniziato la Lega che, con una nota, ha spiegato che «non è in corso alcuna trattativa tra il senatore Matteo Salvini e il presidente del Consiglio Mario Draghi a proposito di un presunto rimpasto». Poi è stata la volta di Italia viva («Non c’è stata una telefonata ieri tra il presidente Draghi e Matteo Renzi») e di Forza Italia («Non c’è stato nessun contatto con Draghi né da parte mia né del presidente Berlusconi», ha detto Antonio Tajani).

Insomma, se Draghi ha parlato del suo futuro, lo ha fatto con sé stesso. Forse per questo i partiti della sua maggioranza stanno provando, chi con appelli pubblici, chi con contorte strategie private, a farlo rimanere a palazzo Chigi. Nessuno li ha avvertiti.

Casini fa campagna elettorale su Instagram

Per una volta, cosa rara negli ultimi giorni, il nome di Pier Ferdinando Casini non è stato quello più evocato nei dibattiti televisivi e nei retroscena politici. Non è nella rosa di candidati presentati dal centrodestra guidato da Matteo Salvini. E la cosa non stupisce visto che anche Antonio Tajani, riprendendo le parole del leader della Lega, ieri ha spiegato che «Casini non è certamente un uomo del centrodestra».

Ma anche dalle parte del Pd, il partito che lo ha fatto eleggere in parlamento alle ultime elezioni, non sembra più così gradito come un tempo. Forse anche per questo ieri mattina, per evitare che il mondo si dimenticasse di lui, l’ex presidente della Camera ha postato su Instagram una suo foto di quando aveva 19 anni scattata durante convegno del movimento giovanile della Dc. Sotto una frase che è già un programma elettorale: «La passione per la politica è la mia vita!!».

Al pubblico decidere se fosse meglio l’oblio o quello che, letto con le lenti della maldicenza, sembra un appello disperato affinché i partiti della maggioranza gli evitino l’onta di una pensione anticipata. Fatto sta che la foto ha ovviamente una certa attenzione nei suoi confronti, non è dato sapere se sufficiente per rimetterlo in pole position come il candidato ideale quando sarà il momento di convergere su un nome condiviso.

Nel segreto dell’urna Casini ha preso, nella seconda votazione, due preferenze. La metà di quelle del premier Draghi, le stessa di Giuliano Amato, altra eterna riserva della Repubblica. Dicono sia un buon segno, perché significa che i partiti non vogliono “bruciarlo”.

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