In attesa dell’incoronazione di Re Carlo, dopo lo scandalo dell’autobiografa del Principe Henry, lo spare o “ricambio” di Buckingham Palace, il Regno Unito ha dato il benvenuto al 2023 sull’orlo di una recessione. E se questo non bastasse a tenere occupata l’opinione pubblica, c’è anche un accordo con l’Ue sull’Irlanda del Nord mal visto dalla maggioranza dei cittadini.

Mentre il paese non sta registrando i successi che i Brexiteers speravano, il governo guidato dai conservatori, che dal 2019 ha cambiato già tre primi ministri, è ai minimi storici in termini di consenso.

È in questo contesto che si inserisce la proposta del governo britannico di negare l’asilo a coloro che arrivano nel paese illegalmente attraverso l’Illegal Migration Bill. Anche sulla crisi migratoria, i numeri non mentono quasi mai.

Dal 1991 al 2020, l’immigrazione annuale nel Regno Unito è effettivamente aumentata molto, precisamente del 117 per cento. Nonostante le restrizioni post Brexit, nel 2022 l’immigrazione netta nel Regno Unito ha raggiunto il record di oltre mezzo milione di persone.

Secondo l’Office for National Statistics, nel 2022 il numero di immigrati totali è cresciuto di 435mila unità rispetto al 2021. L’impennata è in parte dovuta a circostanze eccezionali: arrivi di rifugiati dall’Ucraina, una ripresa post pandemica di tutti i movimenti transfrontalieri ed un aumento del numero di studenti internazionali.

Tuttavia, il governo non si è schierato contro l’immigrazione di per sé, ma contro quella illegale. Retorica quest’ultima che lascia il tempo che trova, visto che di fatto gli illegali, cioè coloro che arrivano senza i documenti necessari per entrare nel paese, rappresentano una minima parte degli immigrati, di cui solo il 6 per cento è richiedente asilo.

Sembra quindi che il provvedimento sia l’ennesimo tentativo per distogliere l’attenzione da altri problemi, come l’aumento del costo della vita per famiglie e imprese.

L’ideale della Brexit

In effetti, lo stesso voto a favore della Brexit era stato in parte motivato dall’idea di bloccare l’immigrazione europea nel Regno Unito, più che da un chiaro vantaggio economico.

Le condizioni della membership britannica in Ue erano sicuramente tra le più vantaggiose: la Gran Bretagna non aveva la moneta unica, non era parte di Schengen e poteva beneficiare del mercato unico.

Eppure, se l’immigrazione non è diminuita nel suo complesso, dalla Brexit in poi, il Regno Unito ha avuto un calo del Pil senza precedenti.

Secondo i dati della Banca Mondiale, dal 2016 al 2021, la crescita media del Pil britannico è stata dello 0,7 per cento, a fronte di una crescita media dell’Unione europea che complessivamente è stata del 1,4 per cento.

Senza dubbio il Covid ha fatto la sua parte. Eppure, il Regno Unito non è solo l’unico paese del G7 che nel 2022 non è ancora riuscito ad arrivare ai livelli del Pil del pre pandemia, ma deve ora fare fronte ad una serie di problemi strutturali che la Brexit non ha risolto.

In primis è un paese che produce poco e di base si concentra sui servizi. La salute, i ristoranti, i servizi di consulenza, i trasporti e l’educazione corrispondono all’incirca all’80 per cento del Pil, mentre la produzione manufatturiera si attesta solo al 14 per cento, le costruzioni attorno al 6 per cento e l’agricoltura all’1 per cento.

Questi ultimi settori sono stati in costante calo durante gli anni della pandemia e del post pandemia, e se è vero che i servizi invece sono cresciuti, nel 2022 anche i trend di quest’ultimi sono diminuiti, a causa della fine di una serie di programmi messi in atto dal governo per sostenere l’economia durante il Covid-19.

I dati più recenti, infatti, mostrano che l'economia del Regno Unito è cresciuta dello 0,3 per cento a gennaio rispetto a dicembre 2022 grazie ad un aumento dei sevizi, ma questa crescita relativa può essere considerata come il prodotto di un Pil più basso a dicembre piuttosto che di una forte incremento a gennaio.

Anche i dati sul commercio estero non sono entusiasmanti. Il commercio con il mercato unico in realtà ha raggiunto i livelli dell’era pre brexit nel giro di un anno, ma non è aumentato e i 71 accordi commerciali stipulati con altri paesi replicano, per la maggior parte, deal già in essere all’epoca bre Brexit, non apportando particolari vantaggi commerciali per il Regno Unito.

Anche i nuovi accordi con l’Australia e la Nuova Zelanda non garantiranno una crescita del commercio e al contrario, potrebbero causare delle perdite ai produttori locali.

Gli accordi con l’India invece sono ancora in via di discussione, mentre quelli con i player principali, Stati Uniti e Cina, non sono proprio sul tavolo. Allo stesso tempo, l’accordo con l’Unione europea, raggiunto dal primo ministro Rishi Sunak sull’Irlanda del Nord, è percepito da molti cittadini come una barriera europea al mercato nazionale che potrebbe danneggiare l’economia interna.

La proiezione elettorale

Sicuramente, le contingenze non hanno aiutato l’economia britannica. La pandemia da Covid19 ha creato problemi alla catena di approvvigionamento, mentre l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha fatto salire i costi dell'energia per le imprese e i consumatori, con l’inflazione all’11 per cento nell’ottobre 2022, il livello più alto dal 1981, che ha spinto la Banca d’Inghilterra ad alzare i tassi di interesse con ripercussioni su mutui e prestiti.

Anche i trend della finanza pubblica non vanno meglio. Il debito pubblico è destinato ad aumentare dal momento che il governo ha speso di più per sostenere le famiglie e le imprese in difficoltà, mentre l’inflazione ha fatto salire i costi degli interessi sul debito.

Si prevede che il deficit di bilancio raggiungerà i 177 miliardi di sterline, quasi 40 miliardi di sterline in più rispetto al 2022. Allo stesso tempo, il generale rallentamento dell’economia, assieme alla fine dei programmi messi in atto dal governo per limitare i licenziamenti durante la pandemia, non faranno solo aumentare la disoccupazione ma abbasseranno la qualità dei posti di lavoro creati, con l’aumento di impieghi part time o temporanei.

Anche dal punto di vista politico, lo scenario in cui i conservatori si apprestano a concorrere alle prossime elezioni, che potrebbe avvenire già nella seconda metà del 2024, è abbastanza grigio.

Al momento il 47 per cento dei cittadini britannici sostiene i laburisti, con un misero 27 per cento ancora in favore ai conservatori.

Il dato più preoccupante è però che il 59 per cento disapprova il primo ministro Sunak, salito alla guida del governo dopo la disastrosa performance della Premier Liz Truss che, con il suo mini-budget, nel settembre 2022 aveva rischiato di mandare in bancarotta le finanze del Regno Unito.

Mentre i conservatori languono dietro ai laburisti nei sondaggi, il governo potrebbe avere poco più di un anno e mezzo per sviluppare le 5 priorità proposte dal primo ministro nel gennaio 2023, che, oltre allo stop all’immigrazione illegale, includono il rilancio dell’economia, il controllo dell’inflazione, la creazione di un mercato del lavoro migliore e lo sviluppo di un sistema sanitario più resiliente.

Questi obiettivi necessitano di piani solidi a sostegno delle imprese e agevolazioni fiscali per attenuare l’impatto sociale del rallentamento economico in corso, in un momento in cui le finanze pubbliche devono anche sostenere costi molto alti per supportare lo sforzo bellico in Ucraina (circa 1,3 miliardi di sterline solo nel 2022).

Questa volta, l’immigrazione, che dal voto della Brexit in poi è sempre stata utilizzata come generatore di consensi, potrebbe non essere sufficiente a ricreare l’approvazione sociale necessaria per guidare il paese fuori da una lunga crisi e vincere le prossime elezioni.

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