Le scelte di politica estera e di difesa sono influenzate da molteplici fattori, siano essi materiali o valoriali, nonché determinate dalla presenza di vincoli, più o meno stringenti, a livello interno o internazionale. La disciplina delle relazioni internazionali evidenzia come un evento improvviso, uno shock (come una guerra o una grave crisi), possa condizionare fortemente le decisioni di politica estera di un paese, alternandone strumenti e obiettivi. Il conflitto in Ucraina rappresenta quel momento di svolta tale da promuovere un reale cambiamento di paradigma nella conduzione degli affari esteri?

La risposta a questa domanda assume particolare rilevanza nel caso della Germania, da decenni gigante economico ma attore assai riluttante – anche per evidenti motivi storico culturali – a impiegare la forza nello scenario globale.

La svolta di Olaf Scholz

L’invasione russa dell’Ucraina è stata interpretata, secondo le parole del cancelliere Scholz a fine febbraio, come una trasformazione epocale, uno Zeitenwende per la politica estera e di difesa di Berlino, pronta a incrementare considerevolmente le spese militari e a svolgere un ruolo attivo sul piano della sicurezza regionale e globale. Scholz ha anche apertamente evidenziato la necessità di rendere le forze armate tedesche «le più avanzate del continente», definendo la Bundeswehr come il cuore «della difesa collettiva» in Europa.

A distanza di alcuni mesi da queste “storiche” dichiarazioni, possiamo valutare se siamo davvero di fronte a un momento di svolta per la Germania (e quindi, di riflesso, anche per l’Unione europea e i suoi membri). A tale scopo dobbiamo mettere in evidenza sia i reali elementi di discontinuità emersi sia i fattori che ancora ostacolano o rallentano un eventuale “cambio di paradigma” per Berlino, soprattutto in merito alla sua politica di difesa.

In generale, un aspetto cruciale da tenere in considerazione è il ruolo del passato, non solo come retaggio della drammatica eredità successiva al nazismo e alla Seconda guerra mondiale, ma anche e soprattutto per le conseguenze di una legacy che ha per decenni segnato il lentissimo processo di sviluppo della politica di difesa tedesca post riunificazione: dal numero (esiguo) di missioni militari condotte alla (poche) riforme approvate, fino ai numerosissimi vincoli istituzionali imposti all’uso della forza.

In poche parole, la Germania – pur vogliosa di iniziare un percorso di radicale trasformazione – non poteva trovarsi, a fine febbraio, nelle migliori condizioni per avviare rapidamente questo cambio di rotta.

D’altronde, anche dopo l’annessione russa della Crimea nel 2014 si ipotizzava un “nuovo consenso” verso un approccio tedesco meno riluttante ai temi della sicurezza, al quale poi non è effettivamente seguito un reale cambiamento (a partire dalle promesse, rimaste tali, di un incremento di investimenti e di efficienza per la Bundeswehr). Lo stesso capo di stato maggiore dell’esercito tedesco, al momento dell’attacco di Putin, ha definito le forze armate come «spoglie», inadeguate a fornire opzioni valide ai decisori a Berlino.

Segnali di trasformazione

A fronte di tali difficoltà, frutto appunto della complessa eredità del passato, negli ultimi mesi abbiamo però osservato segnali di considerevole trasformazione, sia dal punto di vista della retorica dello Zeitenwende che delle scelte concrete.

In primo luogo, affermare di voler assumere la «responsabilità primaria della sicurezza europea», nonché ammettere (come ha fatto lo stesso Scholz) di aver evitato per decenni di attribuire la giusta importanza «ai reali compiti» delle forze armate tedesche (ovvero la difesa dell’Europa più che “l’assistenza umanitaria”), denota un chiaro cambiamento nel discorso pubblico.

Se due decenni fa le parole dell’allora ministro della Difesa Peter Struck (il quale affermò che la sicurezza tedesca veniva tutelata anche nell’Hindu Kush in Afghanistan) sollevarono un grande scandalo, lo stesso non si può dire della recente analoga affermazione dell’attuale titolare del dicastero, Christine Lambrecht, che ha dichiarato che supportare militarmente Kiev significa proteggere i valori e la sicurezza stessa della Germania.

Secondariamente, proprio l’invio di armi all’Ucraina – assieme alla decisione di incrementare il bilancio della difesa tedesca oltre la fatidica soglia del 2 per cento e creare un fondo di 100 miliardi di euro per modernizzare le forze armate – evidenzia una effettiva evoluzione della politica di difesa tedesca, che per anni ha paradossalmente messo in un angolo la dimensione militare adottando una condivisa narrazione da “potenza civile” e rimandando un atteso processo di modernizzazione.

Vincoli interni

Sebbene quindi sussistano chiari segnali di cambiamento a Berlino, a partire dal collegare il rafforzamento della Bundeswehr con una maggiore credibilità internazionale del paese, vi sono però fattori che ancora denotano una grande difficoltà a procedere verso tale percorso di evoluzione.

Il recente, e acceso, dibattito parlamentare sul mancato invio di carri armati tedeschi in Ucraina segue le critiche sia per l’estrema lentezza con la quale sono giunti a Kiev gli aiuti militari promessi all’inizio del conflitto, sia per il livello complessivo del supporto bellico, ritenuto dall’opposizione troppo esiguo se paragonato a quello di altri paesi europei. La paura di “sguarnire” le forze armate tedesche rivela la percezione del loro effettivo stato, al di là del timore politico dell’Spd di esporsi di fronte alla componente più pacifista del proprio elettorato.

Proprio le logiche di coalizione di fronte a un’opinione pubblica per decenni restia a sostenere impegni militari gravosi, nonché un rigido controllo del parlamento nei confronti dell’esecutivo, hanno del resto segnato profondamente l’intricato percorso di evoluzione della politica di difesa tedesca, dal crollo del Muro fino all’invasione russa dell’Ucraina.

La sospensione della leva, così come l’abbandono di una dottrina da Guerra fredda improntata unicamente alla difesa territoriale sono scelte adottate con grande lentezza e fra mille ostacoli da parte di Berlino. Non appare realistico quindi pensare che la Germania possa, in pochi mesi, pur a fronte di un grave shock esterno, allontanarsi improvvisamente da quel percorso e da quei vincoli.

Nonostante le pressioni da parte degli alleati, l’effettivo impegno in operazioni militari oltre confine è stato infatti scarno (quasi imparagonabile, come tipo di impegno, all’Italia), raccogliendo così una limitata esperienza “bellica” (Kosovo e, soprattutto, Afghanistan, esclusi) e mantenendo al contempo una narrazione solidamente lontana da ogni vago sentore di militarismo. Le richieste, in particolare da Washington e dalla Nato, di aumentare le spese fino al 2 per cento del Prodotto interno lordo non sono state soddisfatte: il bilancio si è infatti mantenuto a lungo sotto l’1,5 per cento, come una media più vicina all’1,3 per cento.

Tutti questi fattori aiutano allora a comprendere le condizioni attuali delle forze armate tedesche e anche la decisione, di fronte all’emergenza “Ucraina” e alla volontà di cambiare paradigma, di ricorrere – proprio per migliorare dopo lustri l’efficienza delle forze armate – ad acquisti off-the-shelf, cioè di materiale militare già disponibile sul mercato (come gli F-35 statunitensi per sostituire i Tornado), rispetto a soluzioni che richiederebbero tempi più lunghi, a partire dalla comunque auspicata cooperazione intra-europea.

Politica in evoluzione

In conclusione, occorrerà quindi più tempo per capire se Berlino sia davvero di fronte a uno Zeitenwende e se la sua politica di difesa si avvii o meno verso un percorso che per anni è stato troppo intricato da percorrere, tra il peso del passato e i pressanti vincoli culturali, politici e istituzionali che ne hanno rappresentato la difficile legacy.

In tal senso, un elemento di grande novità è il processo avviato dal ministero degli Esteri tedesco di una prima “National security strategy”. Il fatto che tale documento, inedito per la Germania, verrà elaborato al termine di un’ampia riflessione pubblica può rappresentare anche una buona pratica per paesi – come l’Italia – da decenni ben più attivi di Berlino sul piano militare ma analogamente, e paradossalmente, poco abituati a parlare di interesse nazionale, e ancora meno ad avviare un dibattito strutturato sul tema.

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