Isabelle Dehe è arrivata in Italia su un barcone. Erano gli anni ’90, scappava insieme al marito dalla Costa d’Avorio, e qui sognava di costruirsi un futuro. Ce l’ha fatta, non senza fatica. Ha trovato lavoro a Vercelli, ha avuto due bambini, purtroppo l’amore è finito. Certi legami sopravvivono al mare, ma non ai naufragi che scatena la vita. Però lei è stata felice, e suo figlio minore è un campione.

Se andate su Wikipedia alla voce Moise Kean trovate: calciatore italiano, attaccante della Juventus, della nazionale italiana e della nazionale under 21. Moise ha la pelle scura, come quella di mamma e papà, e certi tifosi imbecilli mentre divora la rete sembrano badare solo a quella, però è italiano, al cento per cento. Lo dice Google, lo dice anche la legge. Isabelle è fiera di lui. Ma anche un po’ di se stessa, che poteva fare una fine bruttissima e invece eccola qua. A tifare il suo ragazzo sugli spalti migliori e a rilasciare interviste per questa idea che le è venuta di dare aiuto, attraverso una cooperativa di Asti, alle donne migranti con minori, per «restituire quello che ha ricevuto».

È questa la nuova Italia di cui abbiamo paura?

Il 9 maggio, giorno della festa dell’Unione europea, le figlie e i figli degli immigrati scenderanno in piazza a Roma per chiedere di pronunciarsi sullo ius soli (al momento è arenata al Senato una proposta di legge che ne chiede una forma “temperata”: cittadinanza ai bambini con uno dei genitori legalmente in Italia da almeno cinque anni). Li chiamano “nuovi italiani”. Sono nati e cresciuti nel nostro Paese da genitori stranieri, i minorenni sono circa un milione. Rappresentano il 7% della popolazione scolastica. Sono i compagni di banco dei nostri figli, gli amici con cui giocano a pallone, i coetanei con cui ciondolano dopo la scuola inventando parole e slang che capiscono solo loro.

Sono uguali, eppure diversi. Perché la legge non li riconosce come italiani“veri”, almeno fino al raggiungimento della maggiore età, privandoli di alcuni diritti basilari. Viaggiare, per esempio. Andare in gita scolastica all’estero. Prendere parte a competizioni agonistiche. Eduard Cristian Timbretti Gugiu, nuovo-italiano di Cuneo con genitori rumeni, 16 anni, asso del nuoto e dei tuffi, ha messo in stand by il sogno di partecipare agli europei, perché il talento senza i documenti non è sufficiente per gareggiare.

Uno degli obiettivi della marcia sarà riaprire il dibattito sullo ius culturae, che riconosce la cittadinanza a chi ha superato almeno un ciclo scolastico di cinque anni. Tra i testimonial della manifestazione, Rami e Adam, i due eroi bambini del bus di San Donato milanese, che dopo giorni di promesse e di smentite, più inevitabili bisticci tra partiti, hanno ottenuto la cittadinanza senza aspettare di arrivare a 18 anni, a ricompensa del gesto eroico. Il giudizio è stato unanime: “se la sono meritata”.

Ma la cittadinanza non può essere un merito. La cittadinanza deve essere un diritto. Non riconoscere questo principio fondamentale significa frustrare il bisogno di appartenenza di un’intera generazione, nata e cresciuta qui, che proprio nell’infanzia e nell’adolescenza matura una propria identità attraverso la lingua, i legami, i valori condivisi. Significa anche legittimare quei sentimenti di odio e intolleranza che lasciano campo libero a certi insulti negli stadi e imbrattano i muri di frasi razziste. È inutile combattere la cultura del “diverso”, se in primis è lo Stato che ti ci fa sentire.

«Io non mi sento più italiano o più bangla, mi sento entrambi» ci ha detto Phaim, 22 anni, nuovo italiano di Torpignattara con genitori bangladesi (l’intervista è a pag. 75). Sulla sua storia ha fatto un film, raccontando la difficile impresa di essere “romano” e al tempo stesso musulmano, in un quartiere della capitale che è un calderone di culture. Crisi d’identità? Nessuna. La vera crisi ce l’ha questo Paese. Spaventato dal nuovo che avanza. Senza capire che il nuovo è già qui.

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