Le vicende di Elizabeth Marsh, viaggiatrice del 700, si sono strettamente intrecciate alla storia di quel secolo fatto di avventure per mare, colonialismo e schiavitù. La sua storia personale ha incrociato i destini di interi popoli.

Il padre Milbourne lavora per la Royal Navy e giunge in Giamaica nel 1732 al seguito di una spedizione per reprimere la ribellione degli schiavi. Fa il falegname sulle navi britanniche ma le fortune della famiglia sono destinate a migliorare. Nel 1734 sposa Elizabeth Evans, forse figlia di una mulatta nata da una relazione illegittima tra una schiava e un proprietario terriero. I disordini razziali e l’alta mortalità infantile li convincono a lasciare i Caraibi per tornare in Inghilterra.

Elizabeth nasce e resta a Portsmouth fino a 19 anni. La città è porto vivacissimo e sede della Compagnia delle Indie. La famiglia aumenta di numero, la coppia avrà 9 figli, e per evitare i pericoli del mare nel 1744 Milbourne lascia la vita di bordo e si dedica ai cantieri navali sulla terraferma. Elizabeth riceve la sua educazione tra Londra, Portsmouth e Chatham. Impara musica, canto, francese, studia un po’ di contabilità con il padre e non teme né il mare né la prossimità maschile perché è abituata all’ambiente sin da piccola.

Nel 1755 la famiglia Marsh, grazie all’intercessione dello zio George, si trasferisce a Minorca. L’isola è piccola e poco popolata ma di grande importanza strategica e Milbourne fa carriera. Durante le guerre tra Inghilterra e Francia viene occupata dai francesi e i Marsh sono costretti a rifugiarsi a Gibilterra.

Elizabeth Marsh convince il padre a lasciarla partire per tornare in Inghilterra e salpa nel 1756. È l’unica donna a bordo ma ciò non la spaventa affatto. Non sa ancora, però, che la attendono i corsari. Un vascello maghrebino intercetta la nave e la conduce sulle coste marocchine.

“Non si scorgeva nemmeno una casa o un albero, solo un’ampia distesa di terra con alte montagne sullo sfondo, che offriva ben poco che fosse degno di nota, sebbene osservassi il paesaggio quanto più potevo, considerata la situazione difficile in cui mi trovavo”.

Elizabeth è spaesata, non conosce l’arabo, non ha punti di riferimento per capire dove si trovi o quanto manchi all’arrivo. Dopo un lungo viaggio sotto il sole cocente e un altrettanto sfiancante interrogatorio viene condotta nell’harem. Solo una bugia la salverà dalla schiavitù: afferma di essere sposata con un viaggiatore a bordo della stessa nave, James Crisp. Che al termine della disavventura la sposerà davvero.

La prigionia a Marrakech è penosa e si protrae a lungo. I prigionieri sono relegati nella mellah, l’angusto quartiere ebraico di Marrakech. Il cibo è scarso, l’igiene carente. Più di una volta Elizabeth rifiuta le profferte del sultano Sidi Muhammad.

“Essendo venuta a sapere da fonti assolutamente autorevoli che non gli ero indifferente, vivevo nel costante timore che Sua Altezza mi mandasse di nuovo a chiamare”.

Dopo lunghe trattative diplomatiche gli ostaggi vengono liberati e salpano nell’ottobre del 1756 a bordo della Portland che li riconduce a Gibilterra. La prima avventura per mare da sola non era andata come aveva sperato. Fino all’ultimo momento aveva temuto che la liberazione promessa venisse revocata e che il suo destino si sarebbe compiuto dietro le grate di un harem.

Chi è Elizabeth Marsh, avventurosa viaggatrice del 700pinterest
Clay Banks / Unsplash.com

James ed Elizabeth si sposano poco dopo e l’anno seguente si stabiliscono a Londra, dove nascono i figli Burrish e Elizabeth Maria. James è un abile commerciante con relazioni in ogni porto del Mediterraneo ed è pronto a lanciarsi in nuove avventure nelle colonie della Florida, dove ottiene una concessione. Ma la Guerra dei Sette Anni fa precipitare le fortune della famiglia e nel 1767 Crisp dichiara fallimento e fugge in India. Elizabeth con due figli piccoli, nessuna casa né mezzi di sostentamento deve tornare a vivere con i genitori a Chatham:

“Devo dire la verità: le sciagure che ho vissuto in questa terra di libertà civile e religiosa non sono da meno rispetto a quelle sopportare nella Barberia”.

Qui scrive il libro in cui racconta la prigionia in Marocco. Lo intitola proprio La prigioniera e ha un intento preciso: far soldi. Si dipinge come una virtuosa fanciulla vessata ma sottolinea anche la sua forza d’animo nell’affrontare disagi e pericoli. Il libro fa scandalo perché quando viene catturata ha solo 20 anni, è nubile e viaggia senza uno chaperon.

Nel 1770 arriva finalmente il momento di raggiungere il marito in India. Si imbarca insieme a Elizabeth Maria lasciando Burrish con i nonni. I contatti della famiglia le assicurano un passaggio in nave fino a Madras, dove giunge nel 1771. In Asia, Crisp ha risollevato le sue sorti commerciando in tessuti, sale e pietre preziose ma le difficoltà sono tante e Elizabeth Maria viene rimandata in Inghilterra. Al contrario Burrish raggiunge i genitori a Madras, ma solo per poco. Viene presto affidato a un mercante perché viaggi e impari le lingue. Il persiano gli varrà un posto alla Compagnia delle Indie Orientali a soli 12 anni e un futuro assicurato.

Elizabeth e il marito di stabiliscono in un lussuosa villa a Dhaka nel 1774. In questa zona dell’India possono permettersi un tenore di vita più alto ma presto Elizabeth diventa insofferente e adducendo motivi di salute si mette in viaggio verso la più salubre costa. Parte per Calcutta in dicembre, poi si imbarca per Madras. Anche stavolta viaggia da sola ma con tutti i privilegi accordati a chi ha amicizie influenti. La scorta personalmente il capitano George Smith. È scapolo e lei lo chiama cugino anche se non c’è alcuna parentela.

Racconta in un diario il suo grande viaggio, lungo ben 18 mesi. Inizialmente frequenta la società inglese di Madras, si delizia dei balli e delle attenzioni galanti. Quando si avventura fuori dai confini rassicuranti dei quartieri britannici “ebbi l’impressione che il mio malessere aumentasse” ma è proprio allora che inizia il viaggio più appassionante.

Per 11 mesi Elizabeth viaggia avventurosamente e scrive che “mi manca l’aria, ma non il coraggio”. A Machilipatnam conosce il comandante Quintin Crauford, colto, poliglotta e interessato alle religioni comparate. Nelle 5 settimane che trascorrono insieme Elizabeth visita i maggiori centri religiosi della zona.

Viaggia con tre schiave personali, incontra le popolazioni locali, si interessa alle loro tradizioni. Elizabeth è cresciuta in un mondo che considera la schiavitù una normalità quotidiana e che vede le culture diverse dal punto di vista della superiorità bianca ma il suo atteggiamento è diverso. Forse mulatta ella stessa e da sempre abituata a vivere nel mondo multiculturale del mare, è curiosa e affascinata dalla diversità. Visita templi e villaggi, non si tira mai indietro davanti alle paure:

“Quando arrivammo in cima, molto in alto, fui deliziata dalla vista che dominava uno dei panorami più belli che ci si possa immaginare. Al ritorno avevamo molto da temere, perché il pericolo che correvamo era straordinariamente grande, e fui molto felice quando mi ritrovai sana e salva a terra”.

Questa avventatezza la mette ancora una volta in pericolo quando decide di non prendere la nave da Ganjam per tornare a Calcutta ma di attraversare l’Orissa, una zona molto instabile su cui il controllo britannico vacilla: “non avevamo un piano preciso del viaggio che stavamo per intraprendere”.

L’ultimo mese di viaggio è durissimo, rischia di restare intrappolata nelle sabbie del lago Chilka e attraversa un’area colpita da carestia, deve razionare il cibo e rinunciare a gran parte del bagaglio e del seguito. Inoltre non dispone di un lasciapassare e subisce le ostilità delle tribù locali. A Jaggurnaut, l’attuale Puri, si imbatte in una grande festa religiosa con fiumane di pellegrini che convergono in città:

“Non mi feci vedere, ma feci un buco nella bulker, la copertura della portantina su cui viaggiavo, dal quale riuscivo a vedere senza essere vista”.

A metà giugno del 1776 deve lasciare George Smith, con cui si sospetta avesse una relazione più che amichevole: “Ogni istante è rattristato dal pensiero di dovermi separare dal mio caro cugino”. Il 20 delle stesso mese arriva a Calcutta e si ferma 6 settimane dall’amica Johanna Ross.

Durante la sua assenza il marito ha costruito una fortuna in Bengala ma le sorti stanno per essere nuovamente rovesciate. Lui perde il lavoro e lei, con il lascito dell’amica Johanna, si rimette per mare. Raggiunge l’Inghilterra per assicurarsi di avere l’eredità del padre, che nel frattempo si è risposato. Nel 1779 affronta il viaggio di ritorno a Madras, lungo 7 mesi. Poco dopo James Crisp muore senza aver fatto testamento e tutti i suoi beni finiscono all’asta. Elizabeth e la figlia si ritirano a Hooghly, è Burrish ora a mantenerle, almeno fino a quando Elizabeth Maria non si sposa con un buon partito.

L’ultimo viaggio di Elizabeth è anche il più doloroso. Nel 1783 scopre di avere un cancro al seno e all’inizio del 1785 si fa operare a Calcutta. L’intervento si fa senza anestesia ed è una prova terribile da sopportare. Elizabeth sopravvive ma solo qualche mese. Muore il 30 aprile dello stesso anno.

(Tutte le citazioni sono tratte da L’odissea di Elizabeth Marsh di Linda Colley, trad. B. Placido, Einaudi)

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