Isabelle Eberhardt è stata impavida esploratrice che ha percorso i deserti nordafricani alla ricerca di un’identità. Lo ha fatto servendosi di un’altra identità, quella del giovane tunisino Mahmoud Saadi, uno degli pseudonimi che usava. Si vestiva da uomo per spingersi dove a nessuna donna era consentito arrivare.

Da Ginevra al Maghreb

Eppure all'inizio della sua vita nessuno sospetta che il Maghreb è nel suo destino perché Isabelle nasce nel 1877 nella cosmopolita e raffinatissima Ginevra. La famiglia proviene da un ambiente sociale agiato e l’ambiente culturalmente vivace della città svizzera, che accoglie tanti stranieri, è il terreno che nutre i suoi primi anni. È però una figlia illegittima.

La madre Natalia Nicolaevna Eberhardt è una nobildonna di San Pietroburgo sposata all’ufficiale Pavel Karlovitch de Moerder, più vecchio di 40 anni. Si è trasferita in Svizzera nel 1871, apparentemente per ragioni di salute, e alla morte del marito non le è più consentito tornare in patria a causa della scandalosa relazione con il precettore dei suoi figli, Alexandre Trofimovsky.

Isabelle porta il cognome della madre. Sul certificato di nascita il padre è ignoto ma si ritiene fosse proprio Trofimovsky, ex sacerdote ortodosso di origine armena in odore di anarchia, uomo di vasta cultura che insegna a Isabelle e ai suoi fratelli tutto quello che sa. Apprendono la filosofia e la storia, la letteratura e le scienze, le lingue moderne e quelle antiche. Isabelle è particolarmente portata per le lingue straniere e impara tedesco e spagnolo oltre a russo e a francese parlati abitualmente in casa. Presto inizia a studiare da autodidatta anche turco e arabo e a corrispondere con studiosi di tutto il mondo. A 16 anni legge il Corano in arabo.

La famiglia vive in una grande casa di campagna fuori città, chiamata Villa Neuve. Nel suo giardino e nei boschi circostanti Isabelle cresce libera legandosi particolarmente al fratello Augustin, vicino a lei per età e inclinazioni. E inizia a vestirsi da maschio per seguire il fratello in scorribande precluse a una bambina.

“Vestita come si conviene ad una ragazza europea, non avrei mai visto niente, non avrei avuto accesso al mondo, poiché la vita esterna sembra essere fatta per l’uomo e non per la donna. E invece mi piace immergermi in un bagno di vita popolare, sentire le ondate di folla scorrere su di me, impregnarmi dei fluidi del popolo. Solo così posseggo una città e ne so ciò che il turista non capirà mai, malgrado tutte le spiegazioni delle sue guide”.

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Travestirsi per Isabelle non è un gioco ma un modo per conquistare la libertà. Anche in Maghreb assumerà un’identità maschile scegliendo il nome di un poeta e viaggiatore persiano del XIII secolo. Ma prima di allora Isabelle ha già assunto un altro pseudonimo, quello di Nicolas Podolinsky, con cui firma articoli e racconti sulle riviste francesi.

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Quando Augustin fugge per arruolarsi nella Legione Straniera, Isabelle e la madre si recano in Algeria con la scusa di ritrovarlo. A maggio del 1897 partono alla volta di Bona ed è questo primo viaggio a consolidare il trasporto della giovane scrittrice per l’Africa. Qui le due donne si convertono all’Islam. Per Isabelle diventare musulmana è un modo per immergersi totalmente nel mondo al quale sente di appartenere.

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Il diritto di vagabondare

Nel novembre dello stesso anno la madre muore di pleurite e Isabelle deve rinunciare al sogno di rimanere in Africa. Rientra a Ginevra ma l’anno dopo il fratello Vladimir si suicida e Trofimovsky si ammala gravemente morendo poco dopo. A questo punto, a soli 20 anni, non ha più niente che la trattenga in Europa e a Giugno del 1899 si imbarca per Tunisi.

Partire è la più bella e coraggiosa di tutte le azioni. Una gioia egoistica forse, ma una gioia, per colui che sa dare valore alla libertà. Essere soli, senza bisogni, sconosciuti, stranieri e tuttavia sentirsi a casa ovunque, e partire alla conquista del mondo”.

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Da Tunisi viaggia verso sud, visita Sousse e Monastir, giunge nel deserto del Souf. Si sposta prima in treno, poi a piedi e a cavallo unendosi a varie carovane sotto mentite spoglie: è Mahmoud. Veste alla beduina, si rasa i capelli e fuma kif, un misto di erbe e hashish. Ama la vita nomade e rivendica il diritto al vagabondaggio: “Un diritto che ben pochi intellettuali si curano di rivendicare è quello di partire all'avventura, è il diritto al vagabondaggio”. Stringe relazioni con gli arabi, che la considerano un uomo, ma anche con gli ufficiali francesi che conoscono la sua vera identità e accettano di reggerle il gioco.

“La bellezza di questo paese è unica nell’aspra e splendida terra d’Africa: qui tutto è dolce e luminoso, e anche la malinconia degli orizzonti infiniti non è né minacciosa né desolata, come da tutte le altre parti”.

Il Souf la incanta ma Isabelle non si ferma a lungo e presto riparte per il Sahel come segretario di un esattore delle imposte. Rientra brevemente in Europa per vendere i suoi scritti a Parigi e incontrare il fratello Augustin in Sardegna, dunque torna ad Algeri, si sposta a Biskra e a El Oued. È il 1900.

“Penso con una voluttuosa malinconia a tutta la stranezza della mia vita in questi scenari fuori dal comune… E con gli occhi socchiusi ascolto i canti lamentosi dei cammellieri e dei deïra. Come sempre quando sono in viaggio, nel deserto, sento una grande calma scendere nel mio animo. Non rimpiango niente, non desidero niente, sono felice”.

Chi è Isabelle Eberhardt: storia e viaggi della nomade svizzerapinterest
Apic//Getty Images

L'amore e il sufismo

A El Oued incontra Suleiman Ehnni, che chiamerà affettuosamente Slimène. È un ufficiale del reggimento Spahi, cavalieri di origine turca al servizio dei francesi. Se ne innamora pazzamente e con lui entra nella confraternita sufi dei Quadiryya. Viaggia per incontrare personalità religiose da cui è stimata come conoscitrice del Corano e fervente musulmana. Fino a quando, a Behima, un fanatico di una confraternita avversa attenta alla sua vita. I mandanti del tentato omicidio restano ignoti ma da tempo gira voce, sia tra gli arabi che tra i francesi, che Isabelle è una spia.

“Questa signorina russa che s’abbiglia in costume arabo” è considerata dalle autorità locali un personaggio scomodo e una donna troppo eccentrica e nel 1901 viene espulsa dal paese. Ripara a Marsiglia ma si strugge di nostalgia per la perduta Africa. Torna in Algeria solo per seguire il processo contro Abdallah Muhammad, l’uomo che ha tentato di ucciderla.

Il processo suscita scalpore e interesse nella stampa che la descrive in costume arabo, ma stavolta femminile: una russa vestita come un’indigena che si dice musulmana, che stranezza! L’attentatore, secondo La Dépêche algérienne del 21 giugno 1901, dichiara: “Allah ha ordinato di uccidere M.lle Eberhardt che, contrariamente alle nostre abitudini, si abbiglia in modo maschile e porta scompiglio nelle nostre regioni”. Ma lei ribatte che porta abiti maschili perché “monto a cavallo e li trovo più comodi”.

Pur essendo chiamata a testimoniare non le viene consentito di rimanere. La soluzione arriva dal matrimonio con Slimène celebrato a Marsiglia a ottobre del 1901. Isabelle, che portava la testa rasata, indossa una parrucca e si veste da donna obbedendo per una volta alle convenzioni. Con le nozze ottiene la cittadinanza francese dunque il diritto di tornare in Algeria. Vive ai margini del deserto e si incanta ogni giorno davanti alle meraviglie della luce sul paesaggio. Stringe amicizia con Victor Barrucand che le chiede di scrivere sulla rivista El Akhbar. Continua a indossare abiti maschili, fuma kif e beve alcol, frequenta i legionari e i nomadi mescolandosi volentieri alla popolazione locale.

“Mi è stato spesso rimproverato di star bene con la gente del popolo. Ma dov’è dunque la vita, se non nel popolo? In qualunque altro posto il mondo mi sembra stretto”.

Due vita in una (brevissima)

Ha solo 25 anni e la sua salute è gravemente compromessa ma non se ne cura. Obbedisce al principio musulmano del mektub, l’accettazione di un destino già scritto. Se da una parte è una donna che forgia la sua vita alla continua ricerca di esperienze, dall’altra sposa una visione fatalista. Nel suo diario parla di “due vite, una piena di avventure che appartiene dal Deserto e un’altra, tranquilla e quieta, devota al pensiero e distante da tutto ciò che potrebbe interferire con esso”.

Diventa corrispondente di guerra per La Dépêche algérienne nella regione a sud di Orano, al confine con il Marocco. Gode della protezione francese e specialmente dell’amicizia del generale Louis Herbert Lyautey ma è anche addentro alle questioni locali perciò è la persona giusta per raccontare il teatro degli scontri.

Trascorre l’estate del 1904 in ritiro spirituale in una zaouïa a Kénadsa ma a causa di una violenta febbre malarica a inizio Ottobre viene ricoverata all’ospedale militare di Aïn-Sefra. Poche settimane dopo si trasferisce in una piccola casa di toub sulle rive dell’oued Sefra, asciutto da molti anni. Di lì a poco la sua vita verrà spazzata via. Letteralmente.

Muore a 27 anni, vittima di un’inondazione nel bel mezzo del deserto del Sahara. A causa di piogge eccezionali sulle pendici dell’Atlante, il 21 ottobre i fiumi esondano. Quando le case di argilla e paglia vengono travolte dalle acque Isabelle sta guardando la piena dal suo balconcino credendo di essere al sicuro. Il corpo verrà trovato giorni dopo e sarà sepolto nel cimitero musulmano di Sidi Boudjemaa.

“Ho voluto possedere questo paese e questo paese mi ha posseduto”.

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