La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi non è Gomorra di Matteo Garrone; non è quel racconto decadente e degenerato della periferia e degli ultimi, della camorra armata e infame, della camorra che un po’ si dispiace e un po’ cerca di arrivare a fine giornata. La paranza dei bambini è un film di formazione, un racconto di ragazzi, un Signore delle Mosche che unisce il gioco, l’adolescenza e l’età adulta.

È la storia di questa Napoli, cresciuta dalla fine degli anni Novanta, pasciuta con i 2000, intristita dalla mancanza perenne di lavoro e incattivita dalla voglia di fare; ma è anche la storia di quell’altra Napoli, quella di una vita fa, fatta d’onore e di oneri, di vecchi codici e tradizioni, di domiciliari e pentimenti, che non riesce a trovare un suo equilibrio e che tra la povertà della vita quotidiana e la ricchezza di chi spaccia, ruba e uccide diventa un mostro deforme, rumoroso e senza costanza, pronto a esplodere e a scomparire. Ne La paranza dei bambini quei pochi adulti che ci sono, sono senza scrupoli, affamati, più infantili dei bambini stessi; rinfacciano ai protagonisti d’essere ancora “muccusielli”, piccoli, e però gli permettono comunque di giocare al loro stesso gioco: quello di chi conquista più velocemente il potere.

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Nicola, che è interpretato da Francesco Di Napoli, che è il cuore e il volto di questo film, decide di entrare nel Sistema perché non ha altra scelta (e a un certo punto lo dice proprio: “è l’unica scelta che ho”). Tutto comincia una sera d’inverno nella Galleria Umberto I, dove lui e i suoi amici rubano l’albero di Natale per battere ai punti quei “fetenti dei quartierini”. È una tradizione vecchissima: si raccolgono pini su pini e poi gli si dà fuoco la notte di Sant’Antonio, e chi fa il falò più grande vince. È il primo contatto che il film di Giovannesi – basato sul libro di Roberto Saviano, co-scritto insieme a lui e a Maurizio Braucci – ha con la realtà: la cronaca – “baby gang ruba l’albero di Natale della galleria”, “piccoli vandali colpiscono ancora” – si fa più chiara; la maldicenza del “sono tutti teppisti, tutti criminali” passa in secondo piano, e si capisce che tutto, ogni cosa, è soltanto un gioco.

Il mondo di Nicola e dei suoi amici, della sua paranza, è un mondo che non ha pietà per nessuno, e che proprio dai bambini, dai più giovani, pretende il sacrificio più grande: abbandonare la spensieratezza dell’infanzia per diventare adulti, per farsi carico del peso delle responsabilità e per fare ordine dove c’è solo caos e confusione. Nicola mette a punto un piano: prima entra nel clan che domina il Rione Sanità e i Vergini, e poi, quando la polizia arresta il boss e i suoi consiglieri, tenta il colpo di mano e prende il potere.

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Ma lui, è chiaro, vuole essere diverso. Ai negozianti non chiede il pizzo, e quando può passa il tempo a divertirsi e a innamorarsi. Pensa d’aver trovato l'amore della sua vita, Letizia, interpretata da Viviana Aprea. Si convince che ce la possono fare, che il loro regno è un regno di terrore ma anche di giustizia, e per un momento, un solidissimo, ma breve momento, intravede la possibilità di qualcosa di nuovo. Ma è una fantasia, e la realtà gli torna prepotentemente addosso, ripetendosi uguale e peggiore di prima. Si camuffa e uccide, si trucca come una donna, s’infiltra, si decide a fare quello che nessun altro vuole fare; e per questo, silenziosamente, piange. Prova a dare a sua madre quello che non ha mai voluto, e la madre, che è una ragazza come e più di lui, interpretata da Valentina Vannino, è felice: ma è anche stanca, consapevole che le cose e le persone non cambiano mai.

Nicola vive tutta la sua vita in pochi mesi, poi si decide ad abbandonarla e a ricominciare lontano, in Puglia, in costume e sempre al mare, con Letizia. Ma non può: il primissimo gioco, quello della guerra ai “quartierini”, ricomincia e stavolta non si fa più a gara al falò più grande, ma si usano le armi e le bombe, per eleggere il più forte.

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Per qualche scena, e sono le scene più belle forse, compare anche Renato Carpentieri nei panni di Don Vittorio, signore di Ponticelli, costretto a vivere in casa perché agli arresti domiciliari. Nicola gli chiede aiuto: gli servono le pistole per prendere il comando alla Sanità, e solo lui, nemico dei suoi nemici e quindi amico, può dargliele. Don Vittorio è l’ultimo bambino: anche se vecchio e stanco, appesantito dalla vita e dall’età, acconsente per poter partecipare ancora una volta, anche se dalle retrovie, al grande gioco del potere. In lui, Nicola vede e riconosce qualcosa: e infatti, quando può, appena può, va a trovarlo, gli regala un grosso televisore, e insieme – uno di fianco a l’altro, con un joystick condiviso, uno che pigia i tasti, l’altro che muove le levette – si mettono a giocare alla Playstation, don Vittorio che gli chiede di mettergli altri botti, “ché sono finiti”, e lui che gli dice: bravo Don Vitto’, bravo, “acciriteli ‘a ‘sti bastardi”.

I soldi, la droga, i tavoli e le bottiglie; le canne fumate sui tetti della Sanità, circondati dalle paraboliche e dalle antenne; i fuochi d’artificio che si sparano a ogni occasione, sempre, per festeggiare oppure per “ammacchiare”, per nascondere; e Napoli che scorre sullo sfondo, che s’insinua tra le pieghe, che c’è e ci sarà sempre, e i ragazzini, i paranzini, che s’armano e si disarmano, che muoiono e diventano eroi in una mitologia locale, fatta di soprannomi e storie, e che conoscono solo una vita, solo una via d’uscita, dalle colpe dei loro genitori: uccidere, essere i primi; diventare i più forti.

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La verità è che sono loro – bambini, muccusielli, senza barba e senza passato – gli unici a capire quanto sia grave quello che fa la camorra. Agli adulti, a quelli che si vestono bene, che fanno feste e matrimoni, che sperperano e provano a vivere come i signori che non sono, tutto sembra solo un colpo di fortuna, “‘na botta ‘e ciorta”. E quindi sono i primi a cadere e i primi a cedere. Ma in questo gioco – “che stai facenn, ‘o Monopoli?”, chiede Don Vittorio – non c’è trionfo che duri: c’è solo il ritardo della sconfitta che prima o poi, e Nicola lo sa, lo capisce, glielo si legge in faccia mentre va alla guerra, arriva per tutti. Come una livella.