Ci si potrebbe spingere a sostenere che Lars von Trier abbia girato l’ultimo film, The House That Jack Built, per scagionarsi dalle accuse di nazismo che gli affibbiarono il persona non grata a Cannes 2011. In uscita a fine mese in Italia, il film dimostra molte cose: che se diretto bene, anche da un attore come Matt Dillon si può strizzar fuori del talento; che la comicità può nascondersi anche nelle storie più macabre e orrende; e soprattutto che il signor von Trier si tiene in alta, altissima considerazione. Al punto, forse, da girare un film intero per scagionarsi.

E forse è la stessa operazione messa in atto da Casey Affleck nel suo secondo film da regista, Light of My Life, presentato or ora nella sezione Panorama della Berlinale. Nel 2010 fu accusato di molestie sessuali sul set del pseudo-doc I’m Still Here, sua prima prova registica, da parte di una delle produttrici e una delle direttrici della fotografia. Il caso fu risolto in tribunale ma riesumato all’indomani del caso Weinstein, quando lo scorso anno Affleck (che vinse una statuetta nel 2017) rifiutò di presentare l’Oscar alla migliore interpretazione femminile per evitare di “distogliere l’attenzione dall’evento principale con l’accaduto delle due denunce ricevute in passato”. Con queste premesse è stato difficile accantonare il pregiudizio durante la visione, poiché Light of My Life è ambientato in un mondo senza donne e incentrato sulla sopravvivenza di una delle poche superstiti.

Calato così suo malgrado nel grande calderone #metoo, è ilare—per un uomo che è stato accusato di discriminazione sessuale—concepire un mondo dove quasi tutte le donne, anzi le femmine, come vengono chiamate, sono state sterminate da un virus letale diversi anni prima. È questo il territorio arido in cui un padre (Affleck, che ha anche scritto e prodotto) vive dandosi alla macchia con la figlia Rag (Anna Pniowsky), perennemente in fuga. Molto simile, nella ricostruzione del camping estremo e nel rapporto padre-figlia all’acclamato Senza lasciare traccia di Debra Granik, è soprattutto in The Road di John Hillcot (2009, dal romanzo di McCarthy) e I figli degli uomini (2006, Alfonso Cuarón) che si ritrovano i toni horror e post-apocalittici del film.

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La catastrofe abbattutasi sull’umanità non è però tanto l’infertilità o la scomparsa della specie umana, quanto l’esistenza in una società sbilanciata, come spiega Affleck alla figlia undicenne. Tanti sono gli spiegoni, nel film, tutti più o meno sulla carta giustificati dal fatto che Rag sta per entrare in pubertà. Il suo imminente ingresso in un’età sessuale fornisce sia il motore dell’azione—camuffarsi, nascondersi, fuggire dagli uomini che la vorrebbero—sia il contesto ideologico-emozionale in cui situare la storia. Per un uomo, è stato detto, lo stupro di una familiare è l’atto di violenza estremo, poiché è la società a diventare vittima.

Sebbene Affleck abbia insistito, in conferenza stampa, di aver concepito la vicenda ben prima di #metoo, e principalmente con il desiderio di raccontare il rapporto tra un padre e sua figlia, Light of My Life è ambizioso (o incosciente) a toccare certi temi, e quindi si è un po’ severi nel giudicarlo. Una scena di oltre 10 minuti introduce i due personaggi, che vediamo quasi sempre ripresi nella stessa inquadratura (e quando non lo sono, è un campanello d’allarme—uno dei vari e semplici trucchi elaborati da Affleck per costruire la tensione).

Il padre racconta alla figlia una storia, una versione dell’arca di Noè come genesi della furbizia delle volpi. A fine film, in seguito a un’azione che capovolge le forze in gioco a favore della più debole, Rag inventa la sua versione dei fatti: ad aver salvato la specie animale durante il diluvio universale è stata una volpe femmina, ingegnosa tanto se non più della volpe maschio inventata dal padre in apertura del film. La lezione è chiara: la voce delle donne, il loro punto di vista, vanno ascoltati e resi possibili—anche e soprattutto se la società intorno a loro è sorda, rinsecchita intorno a un genere unico.

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È proprio la chiarezza con cui Affleck articola questi argomenti che da una parte rende The Light of My Life un film completo e riuscito, dall’altra riduce l’ambizione e la longevità del progetto. Il padre non è solo il forzuto protettore, ma anche un genitore che fatica a gestire una figlia quasi adolescente (con qualche risata: come ci si sente a leggere il manuale Educare senza urlare nel dopo-apocalisse?). Le sue lezioni di vita sono dunque sensatamente tali, e così Affleck evita accuse di mansplaining.

Ma allo spettatore queste frequenti parabole possono suonare, se non come paternali, come favole che mancano di complessità o verosimiglianza (provate a spiegare la differenza tra morale ed etica mentre state raccogliendo bacche commestibili, con la naturalezza di un dottorando in filosofia). Lo sforzo inclusivo della sceneggiatura è evidente (e forse per questo un po’ sospetto), tanto che tra un’allegoria e l’altra ci viene infilata anche una Breve Storia del Razzismo, giusto in tempo per renderci conto che Affleck considera la sessualità ancora una cosa binaria…

Insomma, si potrebbe essere ancora più severi, e leggere nel finale una distorta apologia del fondamentalismo cattolico o delle armi come giusto mezzo per l’autodeterminazione. Sempre durante la conferenza stampa Affleck ha corretto il tiro, parlando di speranza e amore. Sarebbe ingiusto giudicarlo male, perché le sue intenzioni sembrano buone: forse sono solo ideologicamente sempliciotte. Senz’altro il film beneficerà della sua confezione horror-speculative fiction, la cui fortuna è tutta riconducibile a Il racconto dell’ancella (Elisabeth Moss appare tra l’altro brevemente, nei panni della madre). Non si dovrebbero mai paragonare serie TV e film, ma qui rende l’idea: i due prodotti sono molto simili per messaggio e intenzioni, ma largamente diversi per potenza di gittata. La prima lascia il segno; il secondo no. Ma come la serie, l’esistenza Light of My Life renderà il mondo un posto migliore e i suoi spettatori, si spera, persone più consapevoli.