“Al massimo la tendina che si sollevava dietro la finestra indicava che ogni tanto guardava fuori, sullo spiazzo mesto di luci del crepuscolo, i vecchi che giocavano a tavola reale intorno alla statua della Signora dalle tre gambe, i cani mogi che respiravano con la lingua penzoloni”.

Cos’è Boscomatto di Ádám Bodor? A che genere letterario deve ascriversi l’opera dello scrittore transilvano? In quale tempo narrativo deve compiersi il fare del romanzo? Suppongo che queste domande sul libro (uscito per Il Saggiatore nella traduzione di Mariarosaria Sciglitano) non debbano, mai, avere risposta. Questo per salvaguardare l’insita bellezza della letteratura di Bodor, nella quale l’orribile e l’inspiegabile vengono normalizzati e serviti in un’unica spaventevole pietanza, rude e raffinata: un orrore che definirei "campagnolo".

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courtesy Il Saggiatore

Il supposto protagonista - che si muove nel paesino di Jablonska Poljana, un claustrofobico carcere con pochi esercizi - è Anatol Korkodus, il brigadiere per il controllo delle acque. Kafkiano certamente, questi ha difatti compiti bislacchi, come quelli senza senso compiuti dall’agrimensore dello scrittore praghese. Il mondo rurale battuto e controllato da Kordodus è lordo, disorganizzato, povero, minimale, bestiale. Un lavatoio pubblico, case che hanno finestre inchiodate con le tavole, boschi maligni, una diga, una bottega.
In esso bollono e si mangiano cibi che sono sempre carni selvagge, spezie e ortaggi indigesti. Come nella locanda Alle due traviate.

Un mondo che sembra partorito dalla mente metafisica di Werner Herzog, in cui si aggirano figure che patiscono una mancanza eterna della grazia. Jablonska Poljana è un limbo purgatoriale, freddissimo e senza pennuti, che atterrisce più dell’inferno stesso – il quale, come si sa, è momento definitivo delle atrocità – giacché il paesino vibra di sospensione, di incompiutezza e di vaghezza temporale. Non ci sono precisi peccati da espiare. La religione creduta dai paesani non ha la virtù ascensionale della redenzione, non ha la luce.

Ha il male pagano. Quindi l’amore provato da tutti è tribolato e già dannato (come quello di Korkodus per la sua Roswitha). Un sentimento provato per il mero gusto della condanna finale, per il mero piacere del sorriso che avrà il demone. Si aggirano infatti figure brutte e demoniche. Attuano resurrezioni (Nika Karanika, la curatrice, il piccolo demone cincia), giocano e si arrabbiano contro la morte (è il caso dei vendicativi coniugi Augustin), annunciano la sorte (Aliwanka, la sarta che predice il futuro attraverso fazzoletti imbevuti di lacrime), cercano risposte dentro le pagine di assurdi ricettari (il libro di cucina di Eronim Mox, le cui lettere si indorano al tatto).

Le sette ragazze giacevano per terra, si vedeva da lontano che erano prive di vita. Intorno ai loro corpi immaturi, immobili, scorrazzavano insetti becchini. Sulle loro labbra dischiuse pareva ancora vibrare un filo di vapore bianco, poteva essere solo l’anima che si congedava, perché là dentro, dietro le labbra esangui, nereggiava ormai la notte eterna dell’aldilà.

In Boscomatto una struttura portante non c'è, ed è chiaro che non deve esserci, per farci provare il terrore della sospensione. E a tal fine, Bodor si serve di una lingua calderone: caustica, stregonesca, gelida e allucinata. Uno stile che è una specie di continua formula magica, senza cause, ragioni o note a piè pagina.

Abitiamo qui, è vero, ma da tempo la terra sotto di noi non è più nostra.