Dopo tanta attesa, a cinque anni di distanza dall’ultimo lavoro Troppa gente su questo pianeta, oggi, finalmente, tornano gli Egokid e lo fanno in grande stile, con l’irresistibile lunga danza di Disco Disagio, 12 canzoni, tanta cassa in 4, pop, amore, desiderio e vitalità a rendere omaggio anche a quegli anni di clubbing (straviziato), stravissuto senza tregua. Il sestetto milanese, guidato dalle penne brillanti di Diego Palazzo e Piergiorgio Pardo, ci mostra soprattutto, ancora una volta e ancora di più, come la musica impegnata sia tutt’altro che morta ma, anzi, dichiaratamente pronta a mettersi in gioco per raccontare la necessità di una sopravvivenza calda e piena di stile tanto necessaria in questi tempi grigi.

In un mare piano di canzone italiana che costruisce il linguaggio e la restituzione della realtà ricercando una predicata umiltà, fatta di realismo a ogni costo e di narrativa della quotidianità in nome della tanta voglia di immedesimazione, resta poca musica capace di costruire un immaginario altro: gli Egokid scelgono appassionatamente un linguaggio immaginifico in grado di condurre l’ascoltatore nell’esotismo del glam, della canzone come atto profondo e performativo.

Seduta a un tavolo di legno in uno splendido pomeriggio di quasi primavera a casa di Piergiorgio, mi faccio raccontare il nuovo nato dal padrone di casa e da Diego Palazzo: il sole filtra dalle finestre di una casa di ringhiera della Milano che amiamo, siamo circondati da così tanti dischi in vinile da far girare la testa e da una quantità di latte d’avena mai vista prima neppure in un Supermarket. Insomma: non ci manca nulla.

Che cos’è Disco Disagio? Mi diverte pensare sia un genere, la disco "Disagio", l’unica disco possibile nell’era del disagio.

Sì, è una fascinazione anche nostra e ti racconto l’aneddoto da cui è nato tutto: eravamo al Masada, un locale di Milano molto stile rave, c’era un tea party della domenica, noi siamo arrivati tardi e c’era un grande casino e quindi molto senso di mancanza d’ossigeno e quindi di disagio. Lì, sulla musica con cassa in 4, ovviamente, è nato il ritornello e anche proprio l’idea metaforica che c’è dietro al pezzo che dà il titolo all’album. Il tema metaforico è quello della società contemporanea immersa nel disagio, dove siamo tutti ammassati come al centro di una discoteca piena e dove ognuno vuole a proprio modo essere speciale ma siamo tutti sulla stessa barca e uniformati anche nel voler essere speciali.

È la disco come genere ma anche come locale vero e proprio, la discoteca, in cui tu entri, balli, ti sfoghi ti droghi e alla fine esci completamente scaricato, abbracci i tuoi amici, limoni con uno che è il tuo ragazzo o che non lo è e piangi. Il finale è raccontato in Buona tragedia, che è l’ultimo brano del disco, che idealmente rappresenta l’uscita dal locale, portando così il nostro racconto tra l’ingresso (la title track) e la porta d’uscita, quella dove appunto ti liberi anche piangendo. Questo è anche il nostro vissuto, noi alla fine siamo stati dei party-goer anche sperimentatori nei primi anni 2000, andavamo ai festival, ai rave, in qualche modo è una maniera di pagare un tributo a quella fase della nostra vita, a quel momento.

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foto Nicole Violette Vecchia

Che ruolo ha l’artista nella Disco Disagio? Chi è?

L’artista è un attore, entra in una parte ed è bello sia così, ci piace, da protagonisti della Disco Disagio, pensare sempre di andare su un palco e diventare qualcosa di diverso. Ci piace da sempre la musica immaginifica, quella che non dà conferme di un quotidiano piatto e senza nervi, ci piace chi gioca con il proprio personaggio e intorno a questo costruisce la propria scrittura, la propria narrazione.

Due nomi?

Diego Palazzo: Chadia Rodriguez secondo me è molto vicina al nostro sentire, gioca con un immaginario e lo fa in modo letterario, è un linguaggio fatto di immagini che si rincorrono, anche noi cerchiamo di creare una sorta di grammatica così, nostra. Soprattutto Chadia non ha quella pretesa di essere autentica e vera giocando poi al ribasso con la realtà.

Piergiorgio Pardo: Io mi sono innamorato di Myss Keta, quando le ho visto cantare “voglio il burqa di Gucci” e dire “il mio uomo è dell’Isis” sono impazzito, quella cosa è geniale, e anche dopo lei lo è stata, ora con il video di Pazzeska continua con questa idea del personaggio. Lei è altro e qualunque cosa lei sia è un personaggio che ha la stessa genialità di Paperinika, e io mi riconosco nella femminilità di Paperinika.

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foto Nicole Violette Vecchia

Il personaggio serve da sempre al pubblico, nella musica e in generale nelle performance, per generare una distanza, che a sua volta è generatrice del desiderio di colmarla, di vivere la fiaba.

Sì, e se tu hai una fiaba hai anche un sogno, un appetito, una tensione. Hai una narrazione, dei simboli che nella musica italiana ci siamo un po’ persi per strada tutti presi da cercare di dire come stiamo oggi e come stavamo ieri, di riconoscerci, di immedesimarci.

Mettendo insieme questo immaginario del Disco Disagio inteso come club e il vostro discorso sulla necessità di creare qualcosa di immaginifico mi viene da pensare a Cosmo, che è tra i pochi a tenere viva questa narrazione del clubbing proprio in modo quasi cinematografico.

Sì, penso proprio a quel che racconta Cosmo nell’Ultima Festa, anche lui è molto forte in questo senso, ci costruisce proprio un film e lo capisco benissimo, quando in Dicembre dice “ti ha chiamato tuo padre”, vedi immediatamente quel preciso passaggio di quella vita. E poi c’è Achille Lauro, Rolls Royce è proprio questa cosa del sogno, della proiezione.

Lui è anche totalmente glam.

Sì, a partire da Angelo blu con Cosmo, che proprio fa piangere, uno dei pezzi dell’anno scorso.

Cosmo è anche un ottimo riferimento per parlare della stratificazione narrativa che si crea solo quando ti astrai dal puro racconto del reale, in Cosmotronic c’è L’amore che da un lato è l’amour, il sentimento, lo slancio del desiderio, dall’altro è il rave, la dimensione del clubbing quindi l’amore anche come sostanza, su diversi piani.

Assolutamente. Lui è ancora molto dentro quella cosa infatti, secondo me ce l’ha ancora molto viva, non sta tributando ancora niente ma trasferisce tutto molto bene da questa parte, dove lo ascoltiamo, c’è una bella precisione nella narrazione che offre.

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courtesy INRI

Probabilmente anche ora mentre stiamo parlando, standocene davanti all’acqua gasata alle 17.38 di pomeriggio lui…

…lui è appena tornato a casa da ieri sera, o mi piace pensarla così. Noi ora siamo più legati a quella fase del relax post clubbing, ecco…

Beh, basta pensare a un pezzo come Io tu e le foglie

Esatto, quello su cui vogliamo porre l’attenzione è anche il fatto che dobbiamo rilassarci tutti, la giornata è inaffrontabile se hai sbagliato le pillole. Dal pezzo emerge tutta un’idea per cui ci comportiamo durante le nostre giornate come se fossimo presi male, siamo assuefatti da sostanze chimiche sbagliate, qualsiasi sostanza chimica: anche la chimica delle parole e dei corpi, che è quella di quando sei costretto a dividere il tempo e lo spazio con qualcuno con cui non ti trovi, è una cosa che capisci subito ed è terribile, ti avvelena. La chimica sbagliata è quella che genera il nemico che, per noi, di base, è il fascio.

Eccoci, perché chiariamolo, questo disco è impegnato, è un disco profondamente politico, anche i vostri precedenti lo erano ma qua c’è di più. Fino a qualche tempo fa se dicevi a un musicista che il suo disco era impegnato venivi guardato storto, ti prendevano per una rimasta negli anni 70, come se anziché parlare di impegno come di qualcosa di molto ampio, di profondo, si stesse invece facendo riferimento a una sorta di marchio di fabbrica che andava ricondotto a quel tempo là, qualcosa di vecchio, di passato. E invece questo disco è soprattutto un disco politico e insieme contemporaneo, che affonda le mani nelle questioni di questo tempo.

Sì, è così, assolutamente, volutamente. Questo è un disco soprattutto antifascista e noi impegnati lo siamo sempre stati, anche quando cantavamo in inglese e avevamo una certa urgenza di raccontare il mondo queer. Per esempio nel primo disco abbiamo parlato di pedofilia perché se ti ricordi all’epoca girava ancora su larga scala la terribile equazione secondo cui la pedofilia sarebbe figlia, diretta conseguenza dell’omosessualità. Noi dicevamo cose assurde nelle nostre canzoni che poi nessuno capiva.

E invece qua si capisce tutto, questo impegno è più a fuoco e insieme a un focus ricchissimo sull’amore è la colonna portante del disco.

Sì, più che mai il nostro motto è che il privato è politico, l’amore è sempre nel contesto, l’amore in fondo è una forma di antagonismo, interiore ed esteriore, dentro e fuori. In questo senso parlare d’amore non è né sarà mai noioso.

E com’è l’amore nel tempo del Disco Disagio?

Un amore non condizionato, necessario, l’amore perché ti va, l’amore che vuoi fare perché non puoi non farlo. L’amore anche un po’ fine a sé stesso, non necessariamente finalizzato a diventare qualcosa, chissà cosa poi.

Quello che mi piace chiamare "amore ricreativo", concettualmente distante da quello "riproduttivo".

Sìì, anche perché siamo leopardiani, quindi per noi il piacere è l’assenza di dolore. Noi sappiamo che il mondo finisce e quindi nessuna costruzione di senso ha significato o è utile, o di valore. Di valore per noi sono la vita, il rispetto, la diversità, il potere divergente, il poter anche avere più partner e amare, e poi è importante l’assenza di giudizio.

In questo senso rompete molto lo schema borghese secondo cui ha senso rimanere anche quando le cose non vanno più, nei testi di Disco Disagio c’è la voglia di tornare a una dimensione naturalmente positiva delle relazioni e dei sentimenti, penso a un pezzo come Mille Luci che con questo titolo dal programma Rai degli anni 70, racconta di quel momento in cui ci si rende conto di essere cambiati e che quindi quella storia d’amore è finita ed è necessario tornare nel mondo, tra gli altri, mille altri.

Sì, quello infatti è proprio una sorta di inno antiborghese, un po’ come è anche Lost in Venice, la storia di uno che per dimenticare una persona si gode un amore occasionale in una città lontana dalla sua, in questo caso Venezia; lì si crea una forte complicità con la città, che nasce da questo senso comune di ricerca del piacere, della baroccheggiante lussuria. Alla fine volevamo raccontare questa esperienza di entrambi: si va in una città per vedere musei e fare l’amore. Così entri davvero in contatto con un luogo e che il tuo amante sia stata una buona idea o meno, il viaggio diventa una sorta di celebrazione glam dell’hic et nunc, del momento del piacere fine a sé stesso, vissuto in simbiosi con il luogo in cui ti trovi.

Mi piace che l’amore, la relazione con l’altro, in Disco Disagio non conosce la paura della solitudine, poco fa parlavate della musica italiana come luogo della restituzione di sicurezze cantate, dominata dal realismo: anche rispetto al modo in cui trattate i sentimenti vale lo stesso discorso. Non è l’amore del “ci sei o no?” o dello “stiamo insieme o non stiamo insieme?”, è piuttosto quello del godimento, della condivisione, della vitalità.

Sì, siamo monadi aperte, anche quando trattiamo l’amore ossessivo come in un pezzo tipo Mi piaci davvero: la libertà è centrale anche nell’ossessività perché se tu riconosci la tua ossessione e la accetti scatta la libertà. La dimensione ossessiva è un meccanismo che ti domina ma che se riconosci domini tu.

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foto Nicole Violette Vecchia

Come avete tenuto insieme tutto questo? I pezzi sono scritti un po’ da entrambi o a ciascuno il suo?

Per la prima volta davvero insieme, di solito era un bagno di sangue (e di ego) ma questa volta abbiamo unito le forze in un modo nuovo. Il disco nasce proprio dalla voglia di fare qualcosa di bello, che ci piacesse in toto, esprimendoci: non avevamo alcuna pressione esterna quindi ci siamo presi molto tempo. Per quanto riguarda la scrittura ci siamo confrontati, abbiamo scritto tutti e due e spesso insieme. Mi pare che la scrittura ora sia più chiara, più a fuoco perché l’altro restituisce la misura che magari l’autore del pezzo tende a perdere. Abbiamo lavorato senza metterci al centro ma mettendo sempre al centro il brano, cercando non tanto di farci capire - cosa che comunque speriamo accadrà - ma provando a dire quello che volevamo e a farlo insieme fino in fondo.

Il disco è infatti più coeso dei vostri lavori precedenti: è un discorso, e in qualche modo sembra proprio un concept.

Sì, certo, lo è, diciamo che ci siamo ritrovati ad avere un concept mentre lo scrivevamo. Noi siamo sempre stati onnivori in termini di ascolti e di voglia di restituire le nostre ispirazioni e i nostri mondi di riferimento filtrati dalla nostra lente, e quindi questa cosa creava momenti che cozzavano tra loro: canzone d’autore, rock, pop. Questo accadeva non solo tra i pezzi di uno e dell’altro ma anche, in alcuni casi, tra due pezzi scritti da uno solo di noi. Resta che qua non volevamo tanto fare un disco di "belle canzoni", cioè, naturalmente sì, ma soprattutto volevamo portare fuori con noi un disco che nella sua interezza portasse avanti un senso, un discorso, appunto. Ne è uscito un album che ci convince interamente. Siamo molto contenti.

A proposto di dischi… in Disco Disagio c’è un brano intitolato Vinile, una sorta di ode retrò al feticismo dell’LP. Qual è il senso, per voi, di fare un disco oggi nel tempo in cui si sta prepotentemente tornando al singolo - per restare in tema vinile direi al 45 giri, lanciato però sul mercato un lato alla volta?

Guarda, inizialmente anche noi volevamo far uscire un pezzo al mese ma poi, visto il mercato, fare un planning simile sarebbe stato davvero controproducente, troppo lungo, dispersivo. Fare un disco comunque per noi è come scrivere un libro, scrivere una poesia, qualcosa che tu fai per fare un determinato discorso e che si esaurisce quando il discorso finisce; fare un album è prendere un’idea e svilupparla fino a espressione conclusa. Prima parlavamo della fiaba, dell’immaginazione e quindi dell’illusione: ecco, oggi anche pensare che qualcuno resti ad ascoltare un discorso dall’inizio alla fine è illusione e quindi anche questa cosa dell’LP genera una forma di desiderio, che crea un avvicinamento tra noi e l’ascoltatore.

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courtesy Novunque

Col tempo credo che in Italia ci siamo tutti persi il pubblico, non le cose da dire: i concerti ci sono, ma chi ci va? I dischi si fanno, ma chi ascolta? Tutti parlano e nessuno ascolta più. In qualche modo quindi anche con la musica, con questa cosa dei singoli, tutti dicono qualcosa ma senza mai fare un discorso strutturato. Questa cosa del feticismo del vinile ha a che fare con un desiderio figlio dello spaesamento di chi non ha più nulla, perché l’oggetto è sparito, come dicevi, sempre di più. Noi che facciamo gli insegnanti vediamo lentamente tornare questa voglia di riappropriarsi di qualcosa, farlo proprio, possederlo, nel senso più bello e importante del termine. L’idea di intimità del ritorno: tornare alle cose, sentirle proprie. E poi il vinile ha una storia, guarda al passato. Noi siamo un po’ così: non vogliamo essere stilisticamente conservatori però nel nostro approccio che guarda al futuro ci portiamo dentro ascolti classici, e tanti vinili.

Il disco come figlio del desiderio di cristallizzare qualcosa, insomma… il desiderio come generatore.

Esatto! I dischi sono un po’ i nostri figli infatti.

Questo mi pare molto romantico, esattamente come Disco Disagio mi pare il disco più romantico che abbiate mai fatto.

Sì, lo è, anche perché ci siamo resi conto che l’innamoramento per l’immaginario poteva essere un altro elemento militante.

Musicalmente c’è un mondo di riferimenti ben precisi, quelli di una certa dance che parte dai 90s e arriva da noi.

Sì, pensavamo tanto a quella anni 90, primi anni zero: ci sono pezzi più e meno sofferti in questo senso, Disco Disagio è un pezzo nato con l’idea di essere diretti, di essere pop. Ha quest’intro da giostra che gira che parte piano piano, è l’ingresso nel luna park, l’ingresso nel locale, un modo per dire: “entriamo, inizia il circo” e poi si entra e ci sono i quadri parlanti.

E tra questi quadri c’è tanto pop in un senso davvero ampio, c’è anche una certa ironia, una certa precisa italianità.

Sì, c’è una certa milanesità, a volte risentendoci ci troviamo Cochi e Renato e Jannacci, per intenderci. Anzi, visto l’immaginario ci chiameremo Coca e Renato. C’è tutta un’ironia che mi sorprende sempre sentire, trovare. Il linguaggio ironico oggi è difficile perché richiede attenzione, altrimenti non arriva. In una canzone senza tempi comici l’ironia è difficilissima. Nei dischi di Jannacci o anche nel mondo di Mille Luci e della TV di quel periodo che citavi prima, l’ironia era centrale anche proprio in termini puramente sonori, legata alle scelte musicali. A noi piace pensare che quel modo di fare ironia in musica sia senza tempo e quindi anche una cosa modernissima di cui c’è bisogno per alleggerire tutto. E poi in quelle cose c’è sempre stata, dietro l’ironia, una grande malinconia.

Come nel glam, non a caso…

Certo, partendo dall’idea di essere sempre fabulous pur essendo nati in una situazione di disagio.

Ancora una volta torniamo al sogno.

Sì, il sogno, che poi è qualcosa di punk e anche Enzo Jannacci lo era: partendo dall’idea che il punk è colui che non cerca la non-conformità o la conformità: il punk semplicemente fa quello che vuole.

Però questa malinconia, c’è tanto anche nella dance di cui parlavamo poco fa…

Sì, nella dance intelligente c’è la malinconia, certo, è il pre-sentimento del down che verrà. La dance è malinconia, ingloba questo sentimento blue che non ha a che fare con il semplice strafarsi, ha più a che fare con un clubbing che ha preceduto quello che abbiamo vissuto noi: quello delle Zone Temporaneamente Autonome di Hakim Bey. Ancora una volta un concetto politico. Questo senso politico lo percepivamo anche noi allora comunque, specie nel relazionarci con la comunità dei rave. Raccontiamo questa cosa nel brano Dj: stai facendo la fila per il bar, ti balla il piede, sei devastato però sei una creatura della notte, accanto ad altre creature, hai con te la tua appartenenza e te la balli tutta, i versi che racchiudono ogni cosa sono quelli finali: “ti muovi a tempo dentro a questo tempo”. Stando a tempo nella discoteca entri nel tuo tempo, ti metti in un contatto aperto e ancestrale con il tuo momento, la tua storia.

Però c’è anche Statica, voglio dire, il piedino va, questo mi interessa molto, è un concetto molto vicino a quello dei balli di Franco Battiato, di fatto l’inventore della danza da fermi. Si può anche stare fermi al centro della Disco Disagio? E cosa significa stare fermi, oggi, al centro della stanza, mentre si danza?

Ecco. Statica è proprio una sorta di Centro di gravità permanente 2.0, non a caso quello è un concetto connesso alle filosofie orientali con cui Battiato ha famigliarità, per cui anche stando fermi le particelle elementari del tuo corpo si muovono e quindi anche da immobili non solo si fa qualcosa per sé ma anche per chi ci sta intorno. Anche Diderot parlava di “paradosso dell’immobile”: stando fermo ti muovi. Nell’epoca del populismo, puoi stare con gli altri che ballano ma stando fermo, opponendoti così al pensiero dominante con un pensiero divergente che aiuta anche ad armonizzarsi.

E come ci si armonizza qui dove l’armonia sembra lontana anni luce?

Attraverso le cose semplici, le cose libere: l’amore, l’istinto, il piacere, lo scambio, la chimica buona e poi anche con lo stile, quanto conta lo stile… dobbiamo sempre essere chic, senza posa: per davvero.