(Attenzione contiene spoiler di Game of Thrones e in particolare della stagione 8, episodio 3)

Se c'è una cosa che gli scrittori fanno bene è cogliere le vibrazioni del tempo e tramutarle in profezia. George R.R. Martin ha cominciato a scrivere Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco – che poi è diventato Il Trono di Spade – negli anni 90. Chi c'era se lo ricorda, erano anni formidabili per le donne: si cantava, si suonava, si protestava, Kathleen Hanna gridava “All girls to the front!” ai concerti delle Bikini Kill, il femminismo incendiava i paesi anglosassoni. Martin veniva dai collettivi della California anni 60, conosceva quello spirito. A Song of Ice and Fire è una lunga riflessione sul potere patriarcale come elemento tossico, e sulla sua distruzione come passo naturale e necessario per la ricostruzione di una società più giusta.

Le tracce c'erano fino dall'inizio: più di molte altre opere, Game of Thrones si presta a una lettura femminista. Un mondo che somiglia moltissimo a quello vagheggiato dai conservatori americani, costruito sul valore della guerra, della sopraffazione, del potere piramidale, della rigida divisione dei ruoli scavalcabile solo a prezzo di grandi sacrifici personali ed esibendo una determinazione fuori dal comune; un mondo che crolla sotto il peso della sua stessa incapacità di mettere da parte il conflitto per sconfiggere il buio che avanza (ciao, sinistra italiana!).

Donne che si fanno regine con le mani macchiate di sangue, donne che si fanno regine e scoprono che i loro sacrifici non valgono nulla perché possono essere facilmente scavalcate da un uomo che quel trono neanche lo vuole. Donne che si fanno cavalieri e pongono le basi per una radicale ridiscussione di cosa sia uomo e cosa sia donna. Donne per cui la leadership è una questione di esserci, esserci sempre, anche a prezzo della vita, anche se tutto quello che hai per difenderti è un pugnale che non sai usare.

Ragazzine che salvano il mondo.

Human, Sitting, Human body, Adaptation, Event, Photography, Screenshot, Scene, Art, pinterest
courtesy Sky

Martin l'ha visto arrivare da lontano, da più di vent'anni. Mentre il mondo reale scopre le ragazzine, quelle capaci di guidare le folle, quelle che non hanno paura di alzare la voce, Game of Thrones affida a una ragazzina il compito di sconfiggere la morte con il silenzio. Arya Stark ha faticato molto, per ottenere l'abilità che le consente di arrivare alle spalle del Night King senza che lui la senta. Silenziosa come un gatto, abile come la guerriera che è, ma pur sempre una ragazzina, e lui – essere soprannaturale, ma imbevuto dell'arroganza dei maschi potenti – la sottovaluta. Esita un attimo, prima di ucciderla. Si gode il momento.

Basta quell'attimo, un cambio di mano, ed è tutto finito.

Martin, non gli showrunner Benioff e Weiss, ha previsto tutto. Ha previsto che Arya sarebbe stata una delle eroine fondamentali di una storia in cui, più volte, il destino di tutti è affidato a quelli di cui, nel nostro mondo, nessuno si fida. Le ragazzine, i nani, i disabili, i grassi, gli inadatti. Mai come in The Long Night, però, abbiamo visto gli eroi faticare, le strategie di guerra fallire, i guerrieri invincibili spegnersi letteralmente come lumini nella notte. Abbiamo visto Jon Snow, l'Eroe per eccellenza di questa storia, in piedi davanti all'ennesima morte imminente che si sbriciola sotto i suoi occhi.

È solo una tregua, lo sappiamo. Le truppe decimate del nord devono affrontare quelle fresche e spietate di Cersei, al sud. Il mostro finale, ora è chiaro, non viene da fuori: viene da dentro, è la fame di potere, è il desiderio di conservare intatta una struttura che non funziona più per nessuno, solo per poter sedere su un trono che celebra la guerra come mezzo per la pace, un trono fatto delle spade e della resa dei vinti.