In un articolo del 2016 pubblicato da Gizmodo, l’autore del blog Paleofuture Matt Novak si chiedeva se Donald Trump avesse mai aperto un computer nella sua vita, portando a sostegno della sua tesi prove fotografiche e interviste. Sono passati tre anni da quel momento e oggi ci sono molte più indiscrezioni sul rapporto del presidente americano con la tecnologia: twitta tantissimo, è vero, ma lo fa quasi sempre dettando a un collaboratore, mentre dopo le sette di sera pare che twitti da solo; usa pochissimo il computer e il cellulare anche se ultimamente si è fatto fotografare più volte con il suo iPhone; preferisce stampare gli articoli e i rapporti piuttosto che leggerli sullo schermo di uno smartphone.

Sappiamo inoltre che la grande passione tecnologica di Trump è la televisione. Ogni giorno la guarda per ore, iniziando la mattina presto, dal letto. Questa premessa spiegherebbe - anche se in modo empirico - perché Trump non è l’uomo perfetto per difendere il primato tecnologico degli Stati Uniti, in particolare nell’intelligenza artificiale, dall'incalzante progresso di Cina (soprattutto) ma anche di India, Francia e Canada.

E invece, a sorpresa e dopo due anni di promesse, la settimana scorsa Trump ha firmato l’American A.I. Initiative, un ordine esecutivo con il quale promette di sostenere la ricerca nel campo dell’AI. “Mantenere la leadership americana nell’intelligenza artificiale è di vitale importanza per l’economia e la sicurezza degli Stati Uniti”, ha detto Trump in un commento scritto presentando l’ordine esecutivo.

Cina, Canada, Francia e India stiano pensando di diventare la casa di tutti i ricercatori a cui Trump non darà la possibilità di lavorare in America

Ma nonostante l’importanza dell’annuncio, che ha raccolto commenti entusiastici soprattutto da aziende tech come IBM, Dell e Intel, per ora non ci sono numeri, dettagli o altri elementi per capire in che direzione andrà il progetto della Casa Bianca, che in realtà arriva un po’ in ritardo. Ricercatori, esperti e lo stesso governo hanno più volte chiesto a Trump di rendere l’intelligenza artificiale una priorità per gli Stati Uniti. Il primo a parlare della questione dall’interno è stato il capo del Pentagono, Jim Mattis, che la scorsa estate ha inviato un memo alla Casa Bianca implorando il presidente di impostare una strategia nazionale per l’AI. Il motivo è molto chiaro ed è legato non solo allo sviluppo tecnologico ma anche alla difesa del paese.

Un esempio molto interessante è l’approccio della Cina che prevede di creare un mercato del valore di 150 miliardi di dollari entro il 2030, per diventare la superpotenza del settore. Una posizione che Pechino ha leggermente smussato nel corso di una conferenza nella quale il vicepremier, Liu He, ha presentato un piano meno aggressivo, proponendo di collaborare con gli altri paesi che stanno facendo ricerca. Sempre in Cina, ci sono singole città come il colosso tecnologico del sud, Shenzhen, che si stanno sforzando per assumere il controllo: Shenzhen ha infatti annunciato un investimento di 15 miliardi di dollari. Ci sono poi, in ordine sparso, anche la Corea del Sud, la Gran Bretagna, la Francia e il Canada che puntano sempre di più sul machine learning e sulle sue possibili applicazioni.

Detto questo, sembra che ci sia ancora molta confusione all’interno del governo americano e diversi indizi fanno pensare agli analisti più stimati che l’azione di Trump per ora sia solo un annuncio, un atto di teatro abbastanza vuoto nel contenuto. La prova più chiara di questa teoria sono le parole di Kelvin Droegemeier, a capo dell’Office of Science and Technology Policy della Casa Bianca. “Non abbiamo un’idea chiara sui numeri della ricerca nell’intelligenza artificiale”, ha detto nel corso di un intervento a Washington davanti all’American Association for the Advancement of Science, non profit che si occupa di diffondere e promuovere la ricerca scientifica.

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Ma la confusione di Droegemeier è paragonabile a quella degli esperti di intelligenza artificiale quando hanno dovuto analizzare il piano di Trump. Oren Etzioni - professore e Ceo Allen Institute for Artificial Intelligence, una delle istituzioni più rispettate del settore - sostiene che l’ordine esecutivo di Trump abbia un’enorme mancanza: non prevede di attrarre talenti dall’estero, visto che la sua amministrazione sta al contrario limitando il numero di visti per lavoratori stranieri. “All’Allen Institute for Artificial Intelligence - scrive Etzioni in un commento sull’edizione americana di Wired - circa due terzi dei nostri ricercatori sono stranieri. [...] Il 39% dei premi Nobel in chimica, medicina e fisica sono stati vinti dagli Stati Uniti grazie agli immigrati”. Ci sono prove, al contrario, che Cina, Canada, Francia e India stiano pensando di diventare la casa di tutti i ricercatori a cui Trump non darà la possibilità di lavorare in America.

Nel 2015 per la prima volta nella storia degli Stati Uniti il settore privato ha superato il governo nel finanziamento della ricerca di base

Oltre al tema dei visti c’è una grande confusione anche sul significato di questo piano. Sulla carta prevede di migliorare la formazione dei lavoratori del settore, di aumentare l’accesso ai servizi di cloud computing e di data necessari per far crescere l’intelligenza artificiale, e poi parla di promuovere la collaborazione con i governi. Ma non prevede nuovi fondi economici per la ricerca e lo sviluppo (la parte più importante) e l’amministrazione ha fornito pochissimi dettagli su come il programma sarà sviluppato nei prossimi anni. L’idea è quella di usare il denaro già trasferito alle agenzie per finanziare i programmi, dando massima priorità all’intelligenza artificiale. Intanto il denaro federale per la ricerca sta continuando a diminuire: nel 2015 per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, il settore privato ha superato il governo nel finanziamento della ricerca di base.

L’assenza di investimenti non è solo un problema di Trump, anche se, l’amministrazione Trump nel settore tecnologico aveva dato un messaggio molto diverso, soprattutto attraverso la collaborazione con le aziende private, possibilità che Trump ha messo in discussione e scoraggiato con continui attacchi alla Silicon Valley.

All’inizio del 2016, negli stessi giorni dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca, il team di esperti voluto da Barack Obama ha inviato al nuovo presidente un documento con le priorità per sostenere il settore. Trump ha preso la prima decisione due anni dopo, nel maggio del 2018, istituendo il Select Committee on Artificial Intelligence, che comprende esperti delle principali agenzie: dalla Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA), al Department of Energy, the National Science Foundation.

C’è infine la questione della regolamentazione del settore: nei prossimi 180 giorni il presidente riceverà un documento prodotto dal National Economic Council con le osservazioni necessarie per iniziare a pensare a leggi in grado di stabilire un codice etico per l’intelligenza artificiale. Anche in questo caso il timore è che nei prossimi anni non ci saranno grandi cambiamenti, di sicuro non prima delle elezioni del 2020. E questo è molto negativo, soprattutto nella competizione contro la Cina: perdere per gli Stati Uniti significherebbe firmare una condanna a morte. E guardando la velocità con cui la Cina sta lavorando sull’intelligenza artificiale, il rischio è che la fine del primato americano potrebbe essere molto vicino.