“I cinesi ci inondano di smartphone ma non offrono assistenza e non lavorano sulla fedeltà dei clienti. Noi vogliamo costruire dispositivi in Africa per gli africani. E non solo”. Abderrahmane Benhamadi ha 60 anni ed è uno dei figli del fondatore dell’omonimo gruppo industriale algerino attivo su diversi fronti, dagli elettrodomestici ai pannelli fotovoltaici. Ha le idee chiare e sfoggia quel sapore di resilienza di chi, con le diverse avventure di famiglia, è riuscito ad attraversare oltre mezzo secolo di turbolenta storia nazionale.

Quel gruppo si chiama Condor Electronics e in Europa non lo conosce nessuno, ma in Nord Africa sta facendo qualcosa che nessun brand del Vecchio continente è riuscito a fare: diventare primo player nazionale in patria. Come se non bastasse, Condor ha messo un piede in molti Paesi del Maghreb e del Medio Oriente e punta a un’espansione qualche anno fa impensabile anche per il bonario Benhamadi. Da una parte il resto del continente, Africa subsahariana compresa, dall’altra Europa del Sud.

facebookView full post on Facebook

Ma facciamo un passo indietro. Il punto di partenza di quest’intricata vicenda di geopolitica, storia e tecnologia è il mercato africano degli smartphone, dominato dai colossi asiatici. Alcuni sono notissimi anche in Occidente, come Huawei o la sudcoreana Samsung, altri sono ignoti sia da noi che in patria. È il caso del conglomerato Transsion, che in Cina non ha mai venduto neanche un telefono e ha concentrato tutta la sua azione sull’Africa, in sintonia con le mosse del governo di Pechino che fra porti, miniere, infrastrutture e autostrade ha ormai “comprato” mezzo continente.

Lavora con tre brand diversi (Tecno, Itel e Infinix), dichiara 10.000 dipendenti in Africa e 6.000 in Cina, e dal 2001 assembla i suoi telefoni super economici in una fabbrica alla periferia di Addis Abeba, dove 700 persone sfornano 2.000 smartphone - e 4.000 feature phone, i telefonini vecchio stile - al giorno. Lo scorso anno la quota di mercato africana di Transsion è stata del 32%, quella di Samsung del 20% circa e quella di Tecno, un brand di Transsion, del 16%. Chiudeva Huawei con il 10%. Eppure appena una decina di anni fa il quadro era molto diverso: l’Africa era nella quasi totalità affare di Nokia e Samsung.

Gli smartphone africani di Condorpinterest
Courtesy Unsplash

“In futuro, chissà, Condor sarà il brand principale quasi ovunque” scherza Benhamadi da una saletta della fiera nuova di Barcellona. La scommessa del suo gruppo, infatti, ha qualcosa di titanico. Il volo del Condor è iniziato nel 1954, quando il Paese era ancora una colonia francese, con un emporio a Ras El Oued. Poi le vicende della famiglia si sono moltiplicate in più direzioni, dai mattoni alla rivendita di ricevitori satellitari fino alla logistica, agli hotel e alla trasformazione alimentare. Dal 2013, Condor ha iniziato ad assemblare i componenti acquistati in Cina e altrove, confezionando in patria i suoi telefoni; il primo fu un modello battezzato C-1.

Si conclude così una parabola ultra sessantennale con l’oggetto-chiave della digitalizzazione. Il gruppo, che negli ultimi anni ha perfino rilevato due aziende italiane - Nardi e Tecnogas - conta oggi 15 sussidiarie e quasi un miliardo di dollari di giro d’affari per un totale di 15.000 dipendenti. In quella che sembrerebbe essere a tutti gli effetti una parabola di assoluto successo c’è, però, una macchia: lo scorso anno alcune indagini giornalistiche hanno acceso i riflettori sugli inizi del nuovo corso del gruppo e sulla sua attuale gestione fiscale tramite società internazionali offshore sparse fra Lusseburgo e Panama, Samoa e Hong Kong.

Un labirinto ben illustrato da Mondeafrique.com e dall’inchiesta del reporter Lyas Hallas sul quotidiano libanese Daraj. Un punto sul quale, ad oggi, non risultano dichiarazioni chiarificatrici né indagini fiscali avviate in patria. In ogni caso Condor, coi suoi telefoni delle serie Griffe (la più economica coi modelli T8, T8+, T9 e T9+), Plume (L2 Pro, L3 Smart, L4 ed L6 Pro) e Allure (la più avanzata, per esempio col modello M3), è a tutti gli effetti il Davide algerino contro il Golia cinese - anche se ha dei partner cinesi e un centro di ricerca nella repubblica popolare. Primo per quota di mercato (39%, davanti a Samsung), oltre che in casa è sbarcato altrove, come in Egitto e in Pakistan.

Gli oltre 25 milioni di pezzi venduti dal 2013, in 15 Paesi, sembrano dare ragione ai progetti dell’importante famiglia al comando. Condor, infatti, vuole portare i suoi telefoni in Europa: “Vogliamo consolidare la presenza in Francia, dove all’inizio abbiamo fatto degli errori sulle politiche di prezzo, e nel 2020 puntare a Spagna e Italia” racconta il presidente. In un contesto internazionale che, sotto il profilo tecnologico, è nel pieno di un braccio di ferro fra Stati Uniti e Cina, le ambizioni di Condor appariranno pure naif. Tuttavia, al netto dei dubbi fiscali sollevati dalle inchieste, Condor è l’unica a fare smartphone in Africa. Sì, ci sono altri gruppi, come l’ugandese Mara che entro aprile aprirà la sua prima fabbrica in Rwanda, ma sono poco più che startup.

Insomma, nessuno ha le dimensioni del gruppo algerino, che spazia dall’agroalimentare ai farmaci, sfoggiando anche una partnership con il gruppo automoblistico Psa. “Credo che l’Italia sia un Paese moderno da cui possiamo imparare tanto” spiega Benhamadi. “Avremo l’opportunità di farci conoscere se ci muoveremo nel modo giusto, anche perché i consumatori italiani possono concedersi acquisti su fasce di prezzo superiori; inoltre potrebbero apprezzare il retroterra emotivo di un prodotto africano, fatto dagli africani, che può competere con le cose cinesi”.

Mentre in Francia i dispositivi di Condor si possono trovare in alcune catene o con dei piani dell’operatore Sfr, da noi i telefoni dovrebbero arrivare liberamente acquistabili nei negozi o online. Tornando all’Africa, il patron dell’azienda è convinto che ciò che è stato fatto con gli elettrodomestici si potrà replicare con gli smartphone: “La cosa giusta da fare è vendere buoni prodotti dai prezzi bassi ascoltando i bisogni dei clienti: in Africa i cinesi ci riempiono di telefoni, ma non fanno assistenza e non progettano per i bisogni del consumatore medio. Servono prodotti che resistano al calore, all’umidità e che offrano buone prestazioni”.

Gli smartphone africani di Condorpinterest
Courtesy Unsplash

Con prezzi, ovviamente, sempre bassissimi: in patria quelli di Condor partono dall’equivalente di 50 euro. “Per gli africani lo smartphone non è solo un oggetto, è come il pane o l’acqua. In Paesi come Etiopia, Uganda, Kenya, i telefoni sono il canale essenziale per moltissime incombenze quotidiane, a partire dai trasferimenti di denaro. C’è un mercato di un miliardo di consumatori da soddisfare”.