Quando ho chiesto alla console generale italiana a Valona Luana Micheli di cosa avesse bisogno a oggi l’Albania, non mi aspettavo una risposta del genere. Pensavo sarebbe partita una disamina sui problemi infrastrutturali, sulla corruzione crescente, invece no. “Ha bisogno di tanta comprensione”, mi ha detto.

Certo, dal nono piano dello splendido palazzo che dà sul golfo di Valona, quella risposta mi è sembrata semplice e forse abbastanza banale. Per mia fortuna però, ho avuto altri quattro giorni per ricredermi. Ho sempre creduto che solo un idiota non cambia mai opinione: questa volta sono stato felicissimo di confermare questa mia idea.

L’Albania è un paese dai mille volti: una nazione che ha vissuto cinquecentoventisette anni di dominazione ottomana e quarantasette di regime comunista, inframezzati da periodi veramente instabili tra principati, repubbliche improvvisate, regni autoproclamati e uno stranissimo protettorato italiano; una nazione che oggi chiede a gran voce l’ingresso nell’Unione Europea, ma che ha tante contraddizioni da risolvere.

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Valona è una città che viaggia spedita verso il futuro: un lungomare costruito da zero nel giro di un anno e mezzo, panchine con postazioni di ricarica wireless per i cellulari, wi-fi gratuito e libero in centro città e moltissimi giovani che cercano di affrancarsi dall’immagine devastante che un’Albania in ginocchio ha dato di sé a fine anni 90.

Il bellissimo golfo che si affaccia sull’Adriatico è oggetto di investimenti enormi: lì, dicono indicando la parte nord della città, Erdogan ha promesso di costruire un aeroporto, mentre là, indicando la zona sud del golfo, dicono che il principe Alberto di Monaco voglia investire in un porto turistico (ne dubito fortemente, ma chi sono io per confutare la tesi di un ottantenne in giacca e cravatta che parla mezza parola di italiano?).

Valona però è anche la città dei palazzi costruiti a metà, delle Audi A6 bellissime, fiammanti, parcheggiate in mezzo ai calcinacci, la città del Flamurtari, la squadra locale, che nel 1986 batté il Barcellona e che ha uno stadio meraviglioso con parcheggiato al suo ingresso un autobus societario anni 80, distrutto dal tempo e dagli sciacalli che lo hanno reso una carcassa abbastanza triste. Valona è solo il primo dei controsensi che ho visto nel corso del mio viaggio.

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Spostandomi dal sud al centro dell’Albania, direzione Lezhë, la cosa che mi colpisce è la metodica disposizione degli esercizi commerciali che si vedono a bordo strada: gommisti per 5 km, poi benzinai, infine negozi di mobili. Il tutto inframezzato da qualche bar o qualche “tabakino”. Proprio come per il distretto delle amache di Cypress Creek (I Simpson, 8x02), la logica della concorrenza albanese impone di organizzarsi in piccoli ecosistemi commerciali, che vivono di vita propria e prosperano nella voglia di rinascita di un popolo ambizioso e voglioso di rimettere in ordine la propria auto o di arredare alla perfezione la propria casa.

Ho un mondo di domande dentro di me, ma ad alcune risponde Xhovan, uno degli accompagnatori, guidando la sua Golf nera vicino a Gjadër, un piccolo villaggio vicino Lezhë. “La radio dice che il ministro degli interni si è dimesso: questo governo cade a pezzi – mi dice con molta rassegnazione – del resto lo sapevamo, sono tutti corrotti in Albania.” Gli chiedo come mai la strada che stiamo percorrendo è così larga e inspiegabilmente rettilinea. La sua risposta mi sorprende: “Hoxha, il dittatore, era terrorizzato dal fatto che gli italiani potessero bombardare l’Albania con l’atomica, per questo ha fatto costruire a Gjadër una base militare enorme. Quando il regime è caduto, la base è stata ridimensionata e molte piste sono state convertite in strade. Questa era la seconda pista più lunga d’Europa: Hoxha avrebbe dovuto richiedere il supporto dei Mig cinesi in caso di bombardamento nucleare, ma gli aerei supersonici hanno bisogno di spazio per atterrare e decollare. È lunga 3.3 km”.

L’Albania è anche questa: il paese della paura, dell’isolazionismo e dei settecentomila bunker costruiti su tutto il territorio per paura degli italiani, che ora giacciono abbandonati in mezzo alle strade, sulle spiagge o in pieno centro a Tirana, un po’ come cicatrice di un passato ancora fresco, un po’ monito per le generazioni future.

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A Gjadër entriamo in una struttura protetta gestita da religiose che si occupa del recupero di bambine e ragazze vittime di abusi e violenze, o del tutto orfane. È qui che sento parlare per la prima volta del Kanun. Il Kanun è il complesso di regole che si tramanda da secoli in Albania e che ha dettami fortissimi e anacronistici. È la legge culturale dell’entroterra del paese balcanico ed è a tratti spaventoso: le donne sono relegate al ruolo di otre che deve subire solamente le violenze di un marito-padrone che spesso è vincolato da legami di vendetta con famiglie rivali.

La vendetta è forse a oggi, 2019, uno degli ostacoli principali all’ingresso dell’Albania nell’Unione Europea. Secondo il Kanun, le colpe dei crimini si tramandano di padre in figlio maschio e non conoscono tempo: ci si trova a vivere situazioni paradossali in cui i bambini non possono uscire nemmeno di casa per andare a scuola, a causa degli enormi pericoli che vivrebbero nel mondo esterno per colpa di torti fatti o subiti dai bisnonni cento anni prima. Non solo, il destinatario della linea di sangue della vendetta viene ostracizzato anche dai propri familiari, che lo relegano in un angolo della società.

Omicidi per vendetta sono ancora relativamente frequenti nel paese e anche se sono penalmente perseguiti, sono ancora in parte giustificati da un tessuto sociale radicato a retaggi troppo lontani dal presente. Le ragazze, strappate da questo mondo terribile, frequentano la scuola e vivono una vita abbastanza normale, con la prospettiva di scappare da una nazione che faticano a vedere come casa.

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L’Albania è brulla, montuosa, piena di serbatoi dell’acqua sui tetti delle case. La console racconta che è il paese col maggior numero di fonti d’acqua in Europa, ma che manca quasi totalmente di rete idrica; aggiunge che tutto il paese è attraversato da un solo binario, che durante il regime di Hoxha è stato utilizzato per scopi commerciali e che ora è abbandonato, vittima degli arbusti che sono gli stessi, per forma e tipologia, che popolano la nostra macchia mediterranea.

“In un paio di anni, l’Unione Europea avrà un paese in più.” Non posso non pensare a questa frase mentre visito Tale, un villaggio nel bel mezzo del nulla, non distante anch’esso da Lezhë. L’animale tipico delle famiglie di Tale è la mucca. Tutti ne hanno una, tutti le portano a spasso. Quando chiedo a qualcuno il perché, la risposta che si presenta più spesso è “Nuk flas italisht”, non parlo italiano. Poi lo chiedo a Suor Magda, che è in Albania da 24 anni e che ha vissuto l’indipendenza del suo paese, la Slovacchia, per solo un anno, prima di partire alla volta dei Balcani. “Mucca meglio di cane o cavallo: cavallo costa troppo, cane no si può mangiare. Mucca buona se inverno troppo freddo e no soldi”. Il ragionamento fila.

Il giro per le strade fangose del paese è guidato da una decina di bambini che si fanno subito benvolere e che non parlano né comprendono una parola di italiano, ma che si fanno capire benissimo. Mi spiegano come si chiamano gli animali, mi fanno segno che dietro un mucchio di pietre è nascosto un bunker (“bunker, Enver Hoxha, bam bam bam”), mi portano nel cimitero.

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Sono sconvolto dalla quantità di tombe di adolescenti che si trovano in quella struttura. Suor Magda mi racconta che tanti di loro sono morti perché nati rachitici, o durante l’inverno, o di incidente stradale, data l’illuminazione assente durante la notte. Alcuni erano gli zii di quei bambini, che osservano i simulacri con uno sguardo tra la rassegnazione e la paura. C’è una tomba abbandonata su cui cresce talmente tanta erba da aver quasi del tutto ricoperto il marmo; un’altra non ha neanche una pietra, è solo un cumulo di terra con una croce sopra. Fiori freschi e nessuna foto.

Il silenzio a Tale fa paura perché è silenzio vero: niente rumori di auto in lontananza, niente ronzii di elettricità, niente di niente. In quel silenzio rifletto: questi bambini meritano un futuro migliore, un’Europa che possa accoglierli e guidarli in un mondo che corre alla velocità della luce. Potranno avere tutto questo? Non lo so e sinceramente mi sento in colpa per la banalità con cui vivo la mia quotidianità. No, non è la solita retorica del “pensare a chi sta peggio di noi”. Si tratta di prendere un pugno in pieno volto dalla vita nel bel mezzo di un cimitero semideserto in un villaggio rurale dell’Albania.

Mi ricordo molto bene quando ho preso il primo pugno in faccia: avevo quattro anni all’incirca, ero alla scuola materna e qualcuno di più grosso e irascibile di me voleva il triceratopo con cui stavo giocando. Mi ricordo che quella volta mi fece più male il senso di impotenza che l’effettivo dolore fisico: questa volta non è stato molto diverso. Sicuramente molto più consapevole e concreto, ma non diverso.

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Il triceratopo di questi bambini è un paese evoluto, in cui non si comprino più gli esami universitari, un paese che si liberi finalmente di tutti gli spalloni del regime di Hoxha che ora sono in parlamento o al governo, un paese che continui il processo di integrazione tra musulmani, cristiani e atei e che rinneghi il Kanun.

Tirana in questo senso è già un altro mondo: una città a vocazione imprenditoriale, con altissimi edifici di proprietà di banche (per la maggior parte italiane o austriache) e meravigliosamente caotica. La dottoressa Cucciarelli, che coordina l’ufficio istruzione dell’Ambasciata italiana nella capitale albanese ci mostra il complesso stradale costruito dai migliori architetti del ventennio fascista: la prima cosa che penso è che sicuramente per il traffico hanno preso spunto da Roma, tanto è indistricabile il dedalo di automobili perlopiù tedesche che affollano le principali arterie.

In piazza Madre Teresa di Calcutta, che prima si chiamava Piazza Mussolini (che inversione di rotta!), ha sede l’università, che è identica a livello strutturale alla Sapienza, con le dovute differenze di grandezza. Subito dietro l’università sta sorgendo un’enorme costruzione di cemento: è il nuovo stadio della nazionale, i cui lavori sono iniziati sulla scia della storica prima qualificazione agli europei del 2016. Uno stadio enorme in centro città è forse il manifesto della passione smodata degli albanesi per il gigantismo architettonico: nessuno probabilmente ha pensato a quanto sarà difficile muoversi prima e dopo una partita della nazionale, in una città che già sotto la pioggia fatica a sopravvivere, ma tutto sommato va bene così.

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Dalla skytower, la torre rotante in stile Seattle che fronteggia la villa che fu di Hoxha, la vista è mozzafiato. I palazzi illuminati regalano un panorama degno delle migliori capitali europee, ma è scendendo in strada che si perde questa aria da sogno. I palazzi fatiscenti sono ovunque e se la battono con i bunker per presenza. Solo la zona centralissima è salva del tutto dai primi e poco toccata dai secondi.

Percorrendo il Boulevard da Piazza Madre Teresa si arriva in piazza Skanderberg, l’eroe nazionale che sconfisse gli ottomani nel 1444. Qui si trova la moschea, integrata alla perfezione nel tessuto architettonico del quartiere. È proprio quella per la libertà religiosa, la battaglia più importante vinta dagli albanesi. Durante il regime isolazionista, l’Albania diventò il primo paese al mondo a dichiararsi ateo. Non laico, ateo.

Ogni professione religiosa fu resa fuori legge e i trasgressori vennero fortemente repressi. Questo ha portato a vari mutamenti nell’ordine religioso del paese: i cristiani si radicalizzarono e iniziarono a riunirsi clandestinamente, proprio come al tempo delle persecuzioni romane; i musulmani lasciarono perdere molti dei dettami del Corano e diedero vita a una minoranza molto moderata che tutt’oggi non rispetta il divieto di assumere alcolici o di mangiare maiale; molti invece, smisero di professare una religione, rifugiandosi al caldo di un ateismo professato più per comodo che per effettiva volontà.

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Qual è il vero volto dell’Albania dunque? Quello che ha visto un incremento dell’88% del turismo tra 2016 e 2017 o quello dello stipendio medio di 1600 lek, circa 140 euro? Quello della deferenza nei confronti degli italiani o quello dei bunker dove ora vengono stipati gli ombrelloni degli stabilimenti balneari nei mesi freddi? Quello del nono piano del consolato di Valona o quello del cimitero di Tale? Probabilmente tutti questi, probabilmente nessuno.

L’Albania del 2019 è ancora alla rincorsa di una serenità strutturale e politica, ma solo in parte effettivamente pronta per un ingresso in quell’UE che ha garantito settant’anni di pace che l’Albania ha invece raggiunto solo ora e che non vuole perdere per niente al mondo. Bisognerà investire nelle centrali elettriche, nelle strade, in una sanità da riformare da zero e più in generale nelle infrastrutture e nei servizi di base, ma sicuramente la console non sbagliava: l’Albania ha bisogno di comprensione, ora più che mai.