In tutto il mondo sono quasi 14 milioni. In grandissima parte il lavoro delle prostitute è legato allo sfruttamento se non alla schiavitù – basti pensare ai 250mila bambini brasiliani stimati da Havocscope – con alcune differenze a seconda delle diverse leggi e di come queste trovino effettiva applicazione, anche a livello locale. In Germania e Austria, per esempio, la loro attività è regolata e controllata e le lavoratrici del sesso generano un fatturato pro capite di circa 45mila dollari l’anno.

In termini di legislazione c’è di tutto. Paesi in cui la prostituzione è vietata (Stati Uniti, Norvegia, Svezia) e altri in cui è regolamentata (centro Europa, Messico, Australia). Oltre ad altri, come l’Italia, in cui vendere il proprio corpo non è un reato. Ma lo è, ovviamente, ogni azione di favoreggiamento, sfruttamento, organizzazione in luoghi chiusi come bordelli – serrati dalla legge Merlin del 1958 – e in generale ogni controllo che influenzi la libera decisione della prostituta. Di fatto, un territorio grigio in cui si sceglie di non decidere e di chiudere gli occhi sia sullo spettacolo delle consolari italiane che sulle piattaforme digitali che raccolgono migliaia di annunci di persone che ricevono in casa.

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Il film Joy di Sudabeh Mortezai, vincitore del premio Hearst a Venezia.

Una lunga introduzione per sottolineare come da queste condizioni di partenza derivi spesso anche il trattamento concreto che le forze dell’ordine e in generale le autorità riservano alle prostitute. Una nuova indagine, appena pubblicata sulla rivista specializzata Plos Medicine, racconta ora che nei Paesi in cui le (quasi sempre) schiave del sesso hanno a che fare con politiche repressive particolarmente violente, i tassi di infezioni da Hiv e di violenze sessuali e fisiche sono più elevati. In qualche maniera, verrebbe da dire che dove la società criminalizza la prostituzione, affrontandola esclusivamente con la leva poliziesca, il quadro generale della salute fisica e mentale delle persone coinvolte precipiti.

Lo studio, che di fatto è una di quelle mega-indagini che mettono a confronto molti altri lavori realizzati negli anni precedenti – in questo caso fra 1990 e 2018 – ha preso in analisi 33 Paesi. La sentenza è presto pronunciata: arresti, imprigionamenti, confisca di aghi, siringhe, preservativi, trasferimento forzato in nuove zone o abusi degli agenti moltiplicano per tre volte la probabilità di subire violenze fisiche o sessuali e di due volte quella di contrarre l’Hiv o altre malattie sessualmente trasmissibili rispetto alle prostitute che lavorano in un contesto meno poliziesco e (falsamente) securitario. A questo si deve ovviamente aggiungere il dato di partenza: secondo la onlus britannica Avert, infatti, le prostitute hanno un rischio 13 volte superiore alla popolazione generale di contrarre l’Aids. Non solo: le donne che subiscono quella sequela di angherie – che includono anche estorsioni e privazione della possibilità di denuncia giudiziaria – mostrano anche un livello più basso di salute mentale.

“Le pratiche repressive poliziesche aumentano i rischi” ha spiegato alla Cnn Lucy Platt, principale autrice dell’indagine e professoressa associata in Epidemiologia e salute pubblica alla London School of Hygiene & Tropical Medicine. Ecco perché, sempre stando alla ricerca, in molte parti del mondo bisognerebbe rimettere mano alle leggi e soprattutto alle policy, cioè al modo in cui quei principi vengono effettivamente implementati.

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Ma c’è di più. Una regolamentazione più coerente, che limiti il più possibile ogni rischio di abuso e maltrattamento ma anche di mancato accesso a salute e giustizia, rende più forti le prostitute e restituisce loro almeno una porzione di quegli stessi diritti negati. Ad esempio, chi lavora in contesti meno pesanti ha il 30% di possibilità in meno di subire rapporti senza preservativo o altri atteggiamenti pericolosi da parte di chi si rivolge loro. Il timore di arresti porta per esempio le lavoratrici del sesso a negoziazioni rapide con i clienti, a lavorare in luoghi isolati che aumentano i pericoli e in generale non fornisce loro – perché sottoposte alle vessazioni di un’organizzazione criminale – alcun genere di possibilità di manovra o di rifiuto.

Ci sono indagini che provano come la regolamentazione, ad esempio in Nuova Zelanda, abbia prodotto questo miglioramento, dando la possibilità alle donne di rifiutare i clienti o di imporre, o almeno insistere, sull’uso dei profilattici. Un altro studio di sette anni fa, invece, aveva mostrato come la depenalizzazione e in generale un approccio regolatorio più equilibrato avessero ridotto discriminazioni di ogni tipo, persino gli abusi verbali, e inciso fortemente sull’autostima delle donne coinvolte. Questo perché, come ha spiegato un’altra autrice dell’indagine, Pippa Grenfell, professoressa di Sociologia della salute pubblica allo stesso istituto londinese, “le modifiche alle leggi sulla prostituzione non bastano”. Occorre dunque un’azione politica più ampia che affronti lo stigma vissuto da queste persone coinvolgendo nell’azione altre dimensioni di sostegno, dal welfare agli alloggi pubblici.

In Italia, anche se la prostituzione non è vietata, il modo di raccontarla è spesso stolidamente a senso unico. Vi sottopongo qualche titolo di giornale, solo degli ultimi due o tre mesi: “Ostia assediata dalle prostitute, il blitz dei carabinieri”. “Blitz dei carabinieri sulla via delle lucciole. Sei prostitute multate per cinquecento euro”. “Prostituzione, scatta il giro di vite: sei lucciole fermate ed espulse nel week end”.

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Si continua cioè a porre in capo alle schiave del sesso la responsabilità di trovarsi mezze nude, spesso drogate o malate, in piena notte a disposizione di chiunque in qualche strada neanche troppo di periferia. La cronaca fatica dunque ad approfondire, a fornire chiavi diverse del fenomeno, a far esplodere le contraddizioni e l’ipocrisia di un Paese in cui si vessano le donne in strada, spesso le più esposte e in mano a bande di sfruttatori senza scrupoli, e si chiudono entrambi gli occhi sulla nuova prostituzione casalinga delle escort. Anch’essa, spesso, figlia delle stesse dinamiche. Ma al coperto, dunque fuori dall’“assedio” stradale.

Non sono infine mancati atti di violenza, abuso sessuale, sopraffazione anche dalle forze dell’ordine. Nel 2012 due carabinieri della caserma di Pero, Milano, vennero condannati per violenza sessuale e concussione perché avevano costretto due prostitute straniere ad avere rapporti sessuali per evitare la denuncia. A Fermo, nel 2016, è stato arrestato un poliziotto già in precedenza coinvolto in una lunga serie di estorsioni ai danni di alcune prostitute e dei loro clienti. Nel 2014, a Roma, vennero invece arrestati due poliziotti che, insieme a due ex colleghi e altre persone, rapinavano anche prostitute. Nello stesso anno, un vigile urbano di Acerra, Napoli, venne condannato per aver estorto prestazioni sessuali gratuite a una prostituta minacciandole il foglio di via. Sono solo alcuni dei casi emersi, chissà qual è la realtà quotidiana sulle strade italiane.