Sperando contro ogni speranza è il titolo di uno dei capitoli più commoventi e significativi di Sulle spalle dei giganti, il libro autobiografico in cui Kareem Abdul-Jabbar racconta la Harlem Reinassance e l’importanza che ha rivestito nella costruzione della rinnovata dignità dell’afroamericano moderno attraverso l’arte, la letteratura, la musica jazz e, naturalmente, il basket, motore di un’uguaglianza sociale in chiave fortemente identitaria per togliere i ragazzi di colore dalla strada e inculcargli quei fondamentali d’esistenza utili per sopravvivere nell’America segregazionista.

Un tema parzialmente anticipato in Coach Wooden and Me, quando ‘Cap’ ha ripercorso l’inizio della sua irripetibile parabola a UCLA, segnata da tre titoli NCAA consecutivi con i Bruins tra il 1967 e il 1969 e una sfilza di record difficilmente eguagliabili a livello collegiale: “Non ero andato in California a giocare a basket per sfuggire ai contrasti razziali che stavano spaccando in due il Paese. Ci ero andato per imparare di più su me stesso, per trovare la mia voce, per capire come potevo dare il mio contributo. Ero pronto a unirmi alla lotta, ma non sapevo ancora con quali armi avrei combattuto”.

Il fatto che oggi Abdul-Jabbar, primo marcatore di tutti i tempi della storia NBA (38.387 punti in 1560 partite da professionista), sei volte campione (cinque con i Los Angeles Lakers, una con i Milwaukee Bucks) e altrettante volte MVP, faccia ancora notizia per quel che continua a fare fuori dal campo piuttosto che per quello che ha fatto al suo interno, deve stupire solo fino a un certo punto. E la notizia dei quasi tre milioni di dollari raccolti per finanziare le attività della sua ‘Skyhook Foundation’ a favore dei bambini in età scolare attraverso la vendita dei suoi cimeli sportivi – “Se devo scegliere tra collezionare anelli di campione NBA e trofei in una stanza o dare a dei bambini l’opportunità di cambiare le loro vite, la scelta è molto semplice: vendi tutto” – c’entra relativamente. Così come c’entrano relativamente la ‘Medal of Freedom’ conferitagli nel 2016 da Barack Obama, il ruolo di ambasciatore culturale che il segretario di Stato Hillary Clinton gli affidò nel 2012 o l’appello contro lo status di dilettante degli atleti universitari tornato prepotentemente d’attualità dopo l’infortunio di Zion Williamson.

Kareem è sempre stato, è e sempre sarà uno tra gli intellettuali di riferimento più influenti della pop culture americana del XX secolo, icona morale prima ancora che materiale di tutto ciò che rappresenta essere dalla parte degli ultimi (nel 2015 la HBO gli ha dedicato un documentario significativamente intitolato Minority of One), incarnando quel principio del ‘more than an athlete’ che oggi LeBron James ha sdoganato anche mediaticamente.

Ma niente di tutto questo sarebbe stato possibile senza il contributo questo figlio di Harlem. Che c’era il 4 giugno del 1967 a Cleveland, quando ancora si chiamava Lew Alcindor, insieme a Bill Russell, Jim Brown, Lew, Carl Stokes, Walter Beach III, Bobby Mitchell, Sid Williams, Curtis McClinton, Willie Davis, Jim Shorter e John Wooten, poi immortalati in una delle foto più iconiche di sempre, per perorare la causa di Muhammad Ali, nato Cassius Marcellus Clay Jr. e in guerra aperta con il governo americano per la sua renitenza alla leva in Vietnam, nel primo vero atto di protesta da parte degli sportivi americani (e non solo) in difesa dei diritti civili.

C’era, un anno dopo, quando rifiutò di far parte della squadra che si sarebbe aggiudicata l’oro alle Olimpiadi di città del Messico – “Si, ci vivo, ma questo non è realmente il mio paese” – e quando la sua conversione all’Islam (avvenuta nel 1971) servì a riaprire al dibattito sulle condizioni delle minoranze etniche e religiose: “Ero Lewis Alcindor, il pallido riflesso di ciò che l’America bianca si aspettava da me. Oggi sono Kareem Abdul-Jabbar, la manifestazione della mia origine africana, della mia cultura e della mia fede. Per la maggior parte delle persone, convertirsi da una religione ad un’altra è una questione privata che richiede un intenso esame di coscienza. Ma quando sei famoso, diventa un argomento di pubblico dibattito. E quando uno si converte a una religione poco familiare e poco popolare seguono critiche anche sulla sua intelligenza e sul suo patriottismo. Dovrei saperlo. Anche se sono diventato musulmano più di quarant’anni fa, sto ancora difendendo quella scelta”, scrisse nel 2015 in un articolo per Al Jazeera America.

C’era, nel 1996, quando il suo distacco dalle interpretazioni più violente ed estreme del Corano significò muovere critiche a Mahmoud Abdul Rauf (fu Chris Jackson) per il suo non mostrare i dovuti rispetti alla bandiera a causa della rigida osservanza dei precetti di Allah e Maometto.

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E c’era, poco più di dieci anni dopo, quando il suo appoggio a Colin Kaepernick e agli altri atleti neri della NFL che avevano scelto di inginocchiarsi durante l’esecuzione dell’inno nazionale si sostanziò in una lettera aperta pubblicata sul Guardian, diretta a quei proprietari delle squadre che li obbligavano a stare in piedi durante ‘Star Spangled Banner’, mascherando dietro un sentimento patriottico di comodo una questione razziale ben più profonda: “Negare ai giocatori il diritto di manifestare il proprio dissenso è una mancanza di rispetto per la Costituzione, l’esatto opposto del patriottismo”.

Rendere giustizia al (proprio) passato per costruire un presente e un futuro migliori. Questo il mantra di un autentico guerriero che se non avesse fatto il giocatore di pallacanestro sarebbe diventato “insegnante di storia” e che ha pagato con un’indifferenza a tratti inspiegabile verso ciò che era stato – “Per anni ha cercato un incarico di allenatore in NBA ma nessuno ha ritenuto di dover assumere il giocatore in possesso della migliore arma offensiva di tutti i tempi”, scrisse Mitch Lawrence su Forbes – il suo impegno civile scomodo e coerente. Perché quando parla lui, che di dubbi sulla parte per la quale vale la pena schierarsi non ne ha mai, tutti si fermano ad ascoltare: “Molte delle cose contro cui abbiamo combattuto stanno ancora accadendo”, disse nel 2017 commentando la scalata al potere di Trump. “Lui si trova dov’è ora anche a causa dei suoi richiami al razzismo”.

Ricordando le Finals del 1982 Darryl ‘Chocolate Thunder’ Dawkins, allora centro dei Philadelphia 76ers (e visto anche in Italia all’inizio degli anni ’90 con le maglie di Auxilium Torino, Olimpia Milano e Libertas Forlì), disse: “Kareem era il mio incubo. Mi svegliavo sudato nel cuore della notte con l’immagine del Gancio Cielo davanti agli occhi”. Già, il Gancio Cielo. “Il tiro più bello della storia del basket” avrebbe ammesso Magic Johnson, che pure quelle finali le decise con una prestazione memorabile in gara-6 a Philadelphia e con il numero 33 messo fuori causa da un infortunio alla caviglia. Un tiro concesso solo a chi, dall’alto dei suoi 2 metri e 18, poteva avere una visione più ampia, del campo e della vita. Un gigante sulle spalle dei giganti che, proprio per questo, di quegli anelli di campione NBA proprio non sa che farsene.