Tra i milioni di allenatori che può vantare l'Italia, c'è anche Matteo Salvini. A differenza di tutti gli altri, tuttavia, le sue opinioni indispensabili non rimangono recintate nella Coverciano immaginaria dei bar o galleggianti nella melma social, bensì diventano virgolettati che arrivano diretti alle orecchie degli interessati. Fortunati noi, che dal bagaglio calcistico del ministro dell'Interno possiamo attingere per comprendere meglio il gioco; fortunato Gattuso, che può avvalersi del suo aiuto per capire perché il Milan non è riuscito a vincere contro la Lazio dopo essere passato in vantaggio a dieci minuti dalla fine.

È andata così: un Milan più degente che mai ha tenuto botta alla Lazio per 75 minuti prima di trovare il gol con una deviazione fortunosa di Wallace su un tiro di Kessiè. La reazione dei biancocelesti non si è fatta attendere e, dopo aver chiuso il Milan negli ultimi trenta metri, ha riacciuffato il pari con Correa nel quarto dei cinque minuti di recupero. Un pareggio agrodolce, perché se è vero che non era semplice non uscire sconfitti da questa partita chiave in ottica Champions nelle condizioni in cui il Milan è stato costretto a presentarsi – ovverosia privo di almeno cinque titolari -, la delusione di perdere due punti a un minuto dalla fine della partita è sempre forte.

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Una delusione che Salvini, intervistato a fine gara da Top Calcio 24, non ha fatto nulla per nascondere, individuando subito il motivo per cui il Milan non ha portato a casa la vittoria: “una volta che segni in una partita così complicata è normale ti chiudano dietro. Cosa aspettava Gattuso a cambiare, i supplementari? Non capisco la sua testardaggine, i giocatori erano stanchi, ne avevamo almeno tre sulle gambe. Metti Castillejo e togli Borini che andava come mia nonna”. Poi inzuppa la sua minuziosa analisi nel sarcasmo: “non serviva un allenatore esperto, ci sarei arrivato anche io senza patentino e chi era a casa e non stava preparando la pasta al sugo”.

La risposta di Gattuso non si è fatta attendere, e in conferenza stampa ha replicato: “Salvini si lamenta perché non ho fatto cambi? Sentite, io non parlo di politica perché non capisco nulla. A lui dico di pensare alla politica perché con tutti i problemi che abbiamo nel nostro Paese, se il vicepremier parla di calcio significa che siamo messi male”. Per poi aggiungere: “Ha cominciato con Higuain, poi con il derby, ora è un’abitudine: continuiamo così allora”.

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Prima di chiedersi se sia il caso che la sinistra riparta da Gattuso, è necessario sgomberare il campo da un'idea. Per quanto stonato possa sembrare, non c'è nulla di male se una figura di rilievo istituzionale come il ministro dell'Interno commenti pubblicamente la partita della sua squadra del cuore. È piuttosto evidente - ma conviene sottolinearlo - che il fatto di avere una funzione pubblica e rappresentare milioni di persone non intacca in alcun modo le passioni del suo privato, che può permettersi di coltivare e assecondare come meglio crede, anche presentandosi all'Olimpico stretto in un k-way dai dettagli fluo e con la sciarpa rossonera al collo.

Ciò che invece è legittimo provochi un prurito (se già non è scattato per il look curvaiolo) - oltre all'atavica presunzione di ritenersi tutti allenatori e il ruolo del tutto marginale che di questi tempi sta assumendo la competenza fondata sullo studio e sull'esperienza – invece, è il tono con cui una figura di rilievo istituzionale come il ministro dell'Interno commenti pubblicamente la prestazione della sua squadra del cuore o le scelte del proprio allenatore. Per carità, a una certa trivialità ci stiamo facendo l'abitudine, ma per non risultare grossolano questa volta bastava davvero poco: era sufficiente dire che dispiaceva aver preso gol all'ultimo e che alcuni giocatori erano evidentemente sulle gambe negli ultimi minuti. Semplice, no? Non avrebbe fatto una piega e avrebbe connotato Salvini semplicemente per quel che è: un tifoso del Milan amareggiato ma anche un ministro che ha in dote l'intelligenza di non lasciarsi andare in critiche feroci e commenti da manipolo di tifosi radunati al baracchino per una salamella dopo la partita.

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Paragonare Borini a sua nonna, scherzare sui supplementari, sottolineare la presunta evidenza della necessità di fare sostituzioni, enfatizzando sul patentino e il tifoso a casa non impegnato ai fornelli, sono echi del linguaggio con cui Salvini fonda gran parte della sua comunicazione, quella che come partenza e destinazione ha sempre la pancia. “Io quando ho visto quella difesa a tre stasera mi sono fatto il segno della croce. Vado a mangiare qualcosa incazzato”. Sempre la pancia, appunto.

Non staremo qui a esplorare l'inabissamento del valore del linguaggio ai giorni nostri, non spenderemo nemmeno troppe parole sulla precisa volontà da parte di una certa politica di partecipare attivamente alla decadenza di questo linguaggio per cercare il consenso tra le viscere. Ci limitiamo a pretendere che tale volgarità non inquini il territorio del calcio giocato, un calcio malato, colmo di problemi a livello istituzionale e gestionale, di falle nel sistema, ma che da parte degli addetti ai lavori, dei veri protagonisti del movimento è vissuto con rispetto per il lavoro dei colleghi e raccontato con un linguaggio probabilmente basso ma mai offensivo. Insomma, se Salvini non vuole rispettare l'Europa, perlomeno rispetti il calcio.

In chiusura dell'intervista, al vicepremier hanno chiesto cosa pensa di un possibile ritorno di Ibra al Milan: “non voglio fare il bastian contrario, ma non so quanto equilibrio possa portare nello spogliatoio”. Sì, forse è meglio sua nonna.