Adesso che allena la Nazionale cinese, adesso che è andato oltre Bud Spencer e il suo “Piedone” steniano a Hong Kong, adesso che finalmente da figlio è diventato padre, seppure putativo ma di una nazione enorme, la Cina, Fabio Cannavaro può voltarsi indietro e guardare l’impresa, perché si è stratificato, evolvendosi, andando oltre ogni immaginazione, in un processo di estrapolazione e di successiva messa a punto.

È passato, più o meno volontariamente, dall’essere il delegato di un sogno collettivo napoletano che dalle improvvisate partite di notte nei parcheggi fuori dallo stadio San Paolo finisce a giocare vere partite e poi a bordo campo come raccattapalle maradoniano, fino a scalare tutte le posizioni calcistiche possibili: dalle giovanili alla prima squadra, diventando infine il sacrificio economico da compiere per lasciare la società in A (il Napoli è “costretto” a cederlo al Parma per garantirsi la sopravvivenza economica). Infine, a 45 anni, si fa patriarca, finisce a “comandare” la Cina (calcistica).

Per capire il salto del “ragasso” – esodo e trasformazioni – bisogna tornare indietro a quando, dopo un giro enorme di città e squadre, partite e dichiarazioni, Cannavaro torna a Napoli, e Napoli può permettersi di andare oltre la sua biografia di calciatore di altri club (Parma, Inter, Juventus, soprattutto Juventus). Lo fa da capitano della Nazionale e da campione del mondo 2006, e con una scena che mischia Eduardo De Filippo e Mario Puzo, perché entrando a casa con la Coppa del Mondo, dice a suo padre, e quindi a tutti quelli che dalla curva B ai bar gli hanno urlato cosa doveva fare e cosa no: "Pasqua’ guarda che ti ho portato". E non solo fa pace con la sua Itaca, ma si rivolge anche alla leggenda cittadina che vuole Pasquale Cannavaro più forte del figlio Fabio (e ovviamente di Paolo, l’altro figlio calciatore che nemmeno può lamentarsi) in un classico sudamericano, sorianesco, che ama credere al poteva essere e non è stato piuttosto che all’essere, insomma Fabio va contro il realismo magico calcistico e lo fa poggiando la Coppa del Mondo sul tavolo della cucina, una scena da film, oppure un’altra storia omerica.

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Claudio Villa//Getty Images

Perché Cannavaro è un ulisseide, un napoletano errante e quindi un fuori posto, è il cugino americano, anche se ha scelto l’Oriente per stare lontano da casa (oltre alla Nazionale cinese allena il Guangzhou Evergrande – giocando al rimpiattino con Luiz Felipe Scolari, col quale si scambia la panchina della squadra come Totò e Walter Pidgeon ne I due colonnelli si scambiavano il paese – e ha chiuso la sua carriera da calciatore giocando nello Shabab Al-Ahli Dubai FC da dove poi ha cominciato anche a stare in panchina come vice), è l’uomo che si è fatto da solo, che ha saputo piangere e soffrire, sacrificarsi e crescere, in una formazione e un allontanamento da Napoli e dall’essere napoletano che ha più a che fare con Francis Ford Coppola che con Raffaele Viviani, anche se lui viene rappresentato e raccontato come eterno scugnizzo.

Cannavaro è un napoletano atipico, vive un conflitto con la sua città, ha imparato a dimenticarla e a farne a meno (nel suo carico complesso che va dalla mimica alla cucina), in una sorta di emancipazione che anche Pino Daniele e Massimo Troisi, in un modo diverso, avevano inseguito. Ha fatto un grande lavoro sulla propria lingua, non perdendo però il modo di pensare napoletano (elasticità e velocità, in qualunque situazione da un'area di rigore a una conferenza stampa passando per un equivoco in una camera d’albergo in un brutto filmato con una flebo, fino ad alcuni pasticci fiscali che gli hanno portato non pochi problemi), ed ha fatto anche degli sforzi da pesista per lanciare sé stesso lontano.

È innegabilmente il più grande calciatore nato a Napoli e anche quello che ha raggiunto i maggiori titoli sportivi (oltre la Coppa del mondo da capitano della Nazionale, ha vinto il Pallone d’oro, impresa per niente facile per un difensore), finendo per intrattenere con Napoli, fin dal 1994, un rapporto fuggevole, che ricorda non un altro calciatore, ma un attore napoletano: Vittorio Mezzogiorno, uno che passava dal Mahabharata con Peter Brook a La Piovra con la Rai, con la stessa leggerezza con la quale Cannavaro prende tutti i palloni alti nella semifinale contro la Germania al Mondiale 2006 – su YouTube c’è tutta una saga: Cannavaro contro i tedeschi, Cannavaro contro i francesi e via così, come se fosse Piedone di Steno – o segna dalla trequarti con l’Inter, oppure dice a Gianluigi – che tutti chiaman Gigi – Buffon che se li sarebbero "fumati", intendendo i calciatori tedeschi, come se fosse pallastrada e non un campionato mondiale, perché al momento dei saluti iniziali nessuno lo aveva guardato negli occhi.

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E dopo aver trascinato l’Italia in finale e oltre, si mette a centrocampo, braccia conserte – come Bud Spencer in Piedone –, a guardare i rigori, premurandosi di dire a Marcello Lippi che lui in una eventuale lista a oltranza veniva dopo i massaggiatori – il trauma risale a una finale regionale, quando aveva 14 anni e sbagliò il tiro decisivo – e il CT lo accontenta, lui ne approfitta per uscire dall’ansia e confortare Andrea Pirlo, in trance dopo aver tirato il suo rigore, che se ne starà abbracciato al capitano chiedendogli cosa sarebbe successo se Fabio Grosso avesse segnato; Cannavaro ride, spiega, e poi va ad alzare la Coppa, ma salendo sul piedistallo che la regge, a differenza di Cafu, siccome è napoletano e sa che le insidie maggiori si nascondono nelle pieghe finali dei giorni di festa, e ci tiene alla bella figura, dice ai compagni: "Tenetemi"; così l’uomo che aveva tenuto l’Italia (che subirà due gol, uno contro gli Usa: autorete di Zaccardo, e uno in finale su rigore da Zinedine Zidane) chiede di essere tenuto, perché quello che gli aveva consentito di coprire e imperare era la stessa cultura che gli imponeva di non cadere nel giorno di festa.

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E non cadendo si ricongiunge non solo con Napoli, anima e core e soprattutto modus vivendi, ma con l’Italia intera; e non è un caso che a sancire il riconoscimento prendendo la Coppa dalle mani di Cannavaro negli spogliatoi dell’Olympiastadion di Berlino sia Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica, appartenente alla Napoli bene e all’Italia che conta. È in quel momento che Fabio smette di essere fuori posto, smette di essere quello che a Wembley chiamava le marcature in dialetto a Ciro Ferrara, smette di essere il ragazzo di Fuorigrotta che parla il “cannavarese” – l’italiano zoppicante, adottato dei calciatori, che omette i soggetti scegliendo l’impersonale e trascura i finali delle parole e dei verbi scegliendo di troncarle per smarcarsi dal dubbio del singolare e del plurale e delle coniugazioni, poi divenuta lingua del governo – e diventa “il corpo del ragasso” d’Italia, il volto bello dell’Italia che esce dalla crisi.

Il resto lo ha fatto Buffon (1995-2001), che in un eventuale film mondiale sarebbe coprotagonista, e col quale Cannavaro aveva giocato fin dai tempi del Parma (1995-2002), quando con loro c’era anche Lilian Thuram (1996-2001), poi tutti alla Juventus, una tris vincente, insieme fanno due mondiali e un pallone d’oro (per rimanere alle nazionali). Difficile da replicare. La vita da calciatore di Fabio Cannavaro è più cerchio dei cerchi che pure hanno le vite degli altri, la perfezione geometrica, e, infatti, tutto si chiude in un mese – proprio come se fosse il tempo medio di lavorazione di un film –. Quella che diventa la figurina del calcio italiano, e che poi si esporta all’estero: dopo Calciopoli e con la sua Juventus in B va al Real Madrid, vede concretizzarsi tutto nel mese tedesco, al suo terzo mondiale, giocandolo in modo indimenticabile.

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Quando si tratterà di fare un decalogo dei primi anni duemila, le sue scivolate saranno come le ligabuesche rovesciate di Bonimba in Radiofreccia, e in molti si ricorderanno come Fabio Caressa scandiva il suo nome nell’azione che porta al secondo gol nella semifinale contro la Germania: Canna-varo, Canna-varo, che poi la lascia a Totti, Gilardino che la tiene e vede col terzo occhio Alex Del Piero alla sua sinistra, pallonetto su Jens Lehmann e Michael Ballack che piange con la Merkel e le due Germanie. E quando si dovrà scrivere il romanzo di quella estate (i tentativi fin ora sono molto deludenti) Cannavaro apparirà come quello che non ha sbagliato un pallone, con una personalità così forte da permettergli di fare il garantista in conferenza stampa con Luciano Moggi – senza abbandonarlo – e di commuoversi come Sofia Loren alla notizia del tentato suicidio di Gianluca Pessotto, mostrando prima l’anima guasconesca e poi quella tenerissima da terrone con gli occhi di Bambi.

Due volte simbolo e ponte tra due cadute: quella di Moggi e della Juventus come squadra e quella di Pessotto e della Juventus come società, e per due volte ci mette faccia e cuore, anche perché sa farlo, è uno col mento in fuori, che non ha mai paura, in più arriva a quel mondiale da veterano avendo già misurato la sconfitta in lungo e in largo, giocando a ping pong con i propri limiti e quindi andando oltre sé stesso: chi lo ha visto, non tanto in anticipo o in scivolata, staccare di testa, capirà che Cannavaro è l’esaltazione del calcio breriano – che avrebbe amato il suo sorriso da Lilli Carati, di chi si affaccia con genuinità sul mondo, con l’allegria del provinciale in gita –, la manifestazione pallonara senza l’illuminazione d’attacco, lo sporco gioco d’anticipo e furbesco, la concessione della grandezza data alla retrovie e per giunta a un brevilineo tutto muscoli e sacrifici, e con una sua esteticità nei movimenti, una rapidità d’intervento che Gianni Brera, forse, avrebbe potuto raccontare più o meno così: «Piccolo come un francobollo postale che contiene l’idea olimpica, cioè la nobiltà focaia, il primitivo spirito d’arcade guerriero pronto a battersi rudemente contro l’insopportabile tracotanza franco-tedesca; anticipando colpi e parando attacchi e lottando per uno spicciolo di spazio, passando da puzzapiedi “on fettin de salam” a eroe con micca di pane, nell’arco d’un mese».

Juventus' defender Lilian Thuram of Franpinterest
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Insomma, un caso magnifico di difensore centrale postmoderno: capace di mostrare le incertezze di tutti quelli che gli capitano a tiro, appena fanno rimbalzare il pallone – "sono fottuti" –, appena provano a toccarla una seconda volta – "sono fottuti" –, appena si concedono un attimo per pensare – "sono fottuti" –, appena fanno un passo in più – "sono fottuti" da uno spirito radicale e ammaliante – proprio come Vittorio Mezzogiorno – portatore di una varietà di opposizioni, di negazioni (agli avversari), da scavalcare chi segna, in campo e nella classifica del Pallone d’Oro.

Suoi i piedi del cammino nel mondiale, sue le mani sulla Coppa, rotonda proprio come la linea della sua testa rasata, a rimarcare quel cerchio perfetto di quel mese e della carriera di calciatore. Poi ci sarà un altro mondiale, triste, è il Sudafrica, ma sembrano i Tropici cantati da Dalla e De Gregori, quelli di chi attraversa la notte a piedi per truffare la malinconia. In quel periodo Cannavaro fa la pubblicità per una schiuma da barba, e appare molle, e a differenza di altri non patirà il mal d’Africa tornando in Italia, ma se ne andrà a svernare al sole degli emiri, reinventandosi come aveva fatto dopo l’altro mondiale: calciatore, poi allenatore.

Infine il salto in Cina, a fare esperimenti, impegnato a superare un’altra linea d’ombra – "parla solo di moduli e tattiche", racconta il fratello Paolo – senza l’irriducibile snobismo che altri mostrano per il campionato cinese. Cannavaro no, non si è mai raccontato bugie, nemmeno quando con l’Inter Héctor Cúper lo faceva giocare da terzino. Ha passato la vita ad elevarsi e sta continuando a farlo, negli slanci è inciampato – quasi sempre fuori dal campo –, è caduto, si è rialzato, e rimesso a correre. Lo si può immaginare di notte mentre sistema calciatori sul panno verde del Subbuteo e prova schemi come faceva l’Antonio Pisapia de L’uomo in più di Paolo Sorrentino, stessa ossessione, ma con una grande differenza: Cannavaro è un vincente, non aspetta nessuno, sono gli altri che aspettano una sua chiamata. Ancora una volta sta giocando fuori dagli stadi italiani, come faceva da ragazzino a Fuorigrotta, ha scelto di allenare gli arabi e poi i cinesi, ha scelto di anticipare: in panchina come faceva in campo.

Shanghai SIPG v Guangzhou Evergrande Taobao - 2018 Chinese Super Leaguepinterest
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