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La città dalle mille finestre

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Berat


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Settembre 2015
È l’ultimo giorno a Durres. Lasciamo il Nais Beach Hotel con il saluto di Stephan.
Mi mancheranno le sue domande serali su cosa avessimo visitato durante la giornata e quelle mattutine sui nostri programmi. Il suo chiedermi dei cibi assaggiati e di come ci trovassimo in quell’albergo.

Ma c’è una domanda a cui non ho mai risposto: “come mai avete scelto l’Albania?”
La risposta non saprei formularla, non saprei spiegare la sensazione che mi ha portato in questa terra. Forse rimarrà tra le domande che sono anche risposte, anche se non ancora conosciute.

Questa volta la destinazione è Vlore, passando per Berat, Fier e Apollonia via Lushnja.

Ellie è eccitata per la città dalle mille finestre. È eccitata dal mio racconto sulla principessa che vive tra le sue strade. Mi chiede continuamente dove sia, quando arriveremo. Guarda fuori dal finestrino cercando le mille finestre spalancate sul mondo. Il suo mondo, il mondo che si annida nei suoi occhi.

Cambiamo strada deviando per Lushnja. Una cittadina trafficata e piena di cantieri. Il parco alberato, la strada larga che l’attraversa, le montagne sullo sfondo tutto dà la sensazione di una continua trasformazione.

Entriamo a Berat. Il traffico e i pullman di turisti sono ordinati. Anche qui cantieri stradali e pedonali. Anche qui l’Albania si sta imbellettando.

Il Sesto secolo prima della nascita di Cristo si crede sia quello in cui fu fondata la città che successivamente fu conosciuta come Berat, la Città Bianca. Fu la tribù greca dei Dassareti a prendere per prima il possesso della cima della collina su cui ora si erge il castello con la cittadella. In seguito, intorno al 314 a. C., gli stessi fondarono la città di Antipatreia che occupava quella che è oggi la così detta Berat moderna, fino a che nel 200 avanti Cristo i romani di Lucio Apustio non la conquistarono devastandola e uccidendone la popolazione maschile.

Il nome deriva dall’antico bulgaro Beligrad, la Città Bianca, rimasto poi in greco come Bellegrada, in veneziano Belgrad di Romania e infine in turco Belgrad-i Arnavud, la Belgrado albanese.

Conosciuta anche come la Città dai Duemila Gradini e la Città dalle Mille Finestre, è divisa in tre parti: il Castello con la cittadella in cima alla collina, Mangalem ai suoi piedi alla destra del fiume Osum e alla sinistra di questo l’agglomerato di Gorica.

Questo è ciò che ci aspetta: una città intonacata di bianco, con le case strette l’una alle altre che si arrampicano sul fianco della collina con le loro pareti dai mille occhi sul fiume; una città antica nella cittadella che circonda il castello con i resti della Moschea Bianca e la chiesa bizantina del XIII secolo dedicata alla Santissima Trinità; infine, la città al di là del fiume, Mangalem, che sembra essere il riflesso nelle sue acque.

Ci coglie il candore con la sensazione di essere sempre osservati da dietro quelle finestre.
La macchina slitta sulla ripida strada bianca e levigata che porta al castello. Si apre a noi l’antica Berat, con la sua cisterna romana. Le strade sono macchiate di verde per l’erba che si fa strada tra le fessure.

Ellie è sulle mie spalle. Entriamo nella chiesa di Santa Maria divenuta Museo Iconografico Nazionale “Onufri”, in onore del più grande artista di icone albanese, attivo nel XVI secolo. Purtroppo mi fermano appena cerco di fotografare la pala dorata. Un’opera incredibile. Ne sono qui conservate 173, 106 icone e 67 oggetti liturgici, tra le quali spiccano le icone realizzate dallo stesso Onufri, da suo figlio Nikola e da altri artisti.

L’atmosfera ha una sostanza fatta della luce che filtra attraverso le finestre, dall’odore carico di legno e calce bianca, di polvere e olio. L’aria è tangibile. La si vede inoltrarsi lenta tra i banchi, il pulpito ottocentesco in legno scuro, tra i suoi fitti intarsi. In fondo la pala dorata, è l’angolo di colore. Le narici aspirano il silenzio del tempo dimenticato, il tempo del luogo della preghiera dove le pareti bianche, le icone, il legno scuro, la voce dei sacerdoti erano l’immagine di una spiritualità che si trascina per gli stretti vicoli acciottolati di questa città incastonata nella collina.

Proseguiamo il cammino fino al castello, la parte più antica di Berat. Mi prende un senso di leggerezza. Una città silenziosa dall’immagine ovattata, che penetra con un profumo dalle note marcate e amalgamate. Le note parlano ottomano, greco, illirico qui fuse ed equilibrate.

Facciamo una pausa per far mangiare Alessandro e far riposare Ellie. Ci sediamo vicino ad un anziano che vende bibite. Un pensionato che non arriva a fine mese ed è costretto a fare l’ambulante. Parliamo. Parliamo di politica e di storia recente dell’Albania. Mi indica il monte Shprag con la scritta “Never” che un tempo era “Enver” in onore del dittatore Enver Hoxha.

Ecco l’Albania che mostra una delle sue innumerevoli facce. Tutte della stessa testa. Tutte attaccate allo stesso corpo. Alle spalle dell’anziano la chiesa duecentesca di Santa Maria di Blachernae. Mi mostra le sue lunette affrescate che ormai stanno scomparendo. Quasi si commuove. Scompaiono quegli affreschi come la memoria della sua Albania, dimenticata come un’isola sempre più solitaria tra i Balcani e il Mediterraneo.

La strada scende e poi risale verso la cittadella dove all’entrata ci attende la chiesa bizantina della Santissima Trinità. Costruita nel XIII secolo è ora puntellata da travi di legno.
Anche questa, immagine dello spirito antico di questa terra che, con difficoltà, ha superato i secoli e ora cerca di risollevarsi.

Superiamo la porta delle mura della cittadella. Un grande spazio verde di erba contiene le rovine delle antiche strutture. Il castello. La cisterna romana. La moschea Bianca, la Xhamia e Bardhë. In cima alle sue rovine un ragazzo è seduto con le ginocchia al petto e guarda la valle che si apre al di sotto. Quante persone ha ispirato questo luogo? Quante si sono fermate senza opporre resistenza al cullare dell’anima dell’Albania. Pervade ogni cosa. Ogni passo la senti vivere, respirare. Quel ragazzo ha lasciato far prendere da questa terra i propri pensieri e il sentire suo più intimo.

Ci riposiamo. Usciamo dalla porta che dà sulla strada che porta all’entrata della cittadella. Ci fermiamo in una piccola taverna con i tavolini fuori sull’acciottolato in pendenza. Riso con pollo e byrek. Questo il nostro pranzo.

Riprendiamo il cammino. Mangalem e Gorica. Rispetto al castello le strade ai piedi della collina sono un intrico di vie e gradini stretti, con i balconi chiusi che si appoggiano al muro della casa difronte. Bianche, le pareti delle case riflettono spietate la luce del sole.
Le mille finestre ti osservano e guardano. Come mille specchi riflettono la tua immagine.
È diversa. Di una realtà parallela che vive al loro interno. Così doveva essere Berat un tempo.
Un luogo sospeso da cui si entrava e si usciva costantemente. Un labirinto di scale e vie che conducono a grandi portoni in legno.

Berat la bianca per la luce che emana. Berat dai due mila gradini. Berat dalle mille finestre. Berat dalla moschea di piombo. La moschea del Re, la più antica di Berat risalente alla seconda metà del Quattrocento. Camminiamo. Attraversiamo il Ponte di Gorica ricostruito in pietra nel 1920 in sostituzione dell’antica struttura in legno risalente al 1780.

La giornata non smette di essere calda. Il fiume Osum passa sotto i nostri piedi. Operai stanno lavorando al rifacimento stradale. Un uomo pesca su una secca.

Torniamo all’auto che nel frattempo si è cotta per bene. Lasciamo alle spalle una città piena di luce bianca. Ele se ne è innamorata. Un luogo inaspettato. Un luogo che ci ha accolto con sorpresa. Una città il cui centro storico è patrimonio dell’UNESCO dal 2008, unito a quello di Argirocastro, perché “raro esempio di città ottomana”. Un luogo che è raro. Un luogo in cui il proprio riflesso vive una vita al di là della propria.

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Autore Fabio Picolli

Fabio Picolli, nato a Napoli nel 1980, da sempre appassionato cultore della conoscenza, dall’araldica alle arti marziali, dalle scienze all’arte, dall’esoterismo alla storia. Laureato in ingegneria aerospaziale all'Università Federico II è impiegato in "Leonardo", ex Finmeccanica. Giornalista pubblicista. Il Viaggio? Beh, è un modo di essere, un modo di vivere!