La spirale dell’odio

La tragedia in Nuova Zelanda ha suscitato proclami di indignazione in tutto il mondo, e qualche lacrima di coccodrillo (vedi Trump). Ma è assolutamente necessario capire fino in fondo la situazione. Razzismo e “suprematismo bianco” non sono fenomeni di oggi: in Occidente, risalgono al secolo XIX negli Stati Uniti, divisi allora dal problema della schiavitù, che portò a una lunga e tragica guerra civile. Poi si sono manifestati  in varie forme: contro i negri nel Sud degli USA (con le aberrazioni del Ku Klux Kan), ma anche contro gli ebrei, in Francia, Germania, Polonia, Russia e altrove. Nella sua versione antislamica sono fenomeni più recenti; risalgono, essenzialmente, agli anni Sessanta, quando una vasta e all’inizio pacifica invasione di immigranti musulmani è parsa mettere in pericolo l’identità e la stessa sopravvivenza a lungo termine della civiltà cristiano-occidentale, e si sono accentuati, assumendo forme di reazione violenta, in risposta ai ripetuti e criminali attentati terroristici di matrice islamica. La spirale dell’odio che così si è generata non può essere giustificata, ma è importante capirne le radici, per poter poi ragionevolmente farvi fronte.

Terrorismo islamico e terrorismo bianco sono due facce della stessa medaglia e si alimentano  reciprocamente. I massacri  islamici creano la base e la giustificazione psicologica per atti di vendetta altrettanto criminali e stupidi, e gli assalti ai musulmani  innocenti sono capaci di provocare reciproche vendette. Come fermare o almeno controllare questa spirale di odio, che può portare a una sorta di guerra civile? Guerra alla quale non credo onestamente che siamo vicini, ma che, se si lasciasse avvelenare la situazione, potrebbe diventare una tragica realtà.

Il terrorismo bianco  è forse meno pericoloso perché non ha dietro di sé una vera organizzazione a livello mondiale, né finanziatori occulti di rilievo, ma il razzismo bianco è più inquietante per la sua diffusione politica, come si vede nei successi dei movimenti razzisti in Francia, Germania, Italia, USA, Russia e altrove.

Però è certo che terrorismo e razzismo, di qualsiasi segno, vanno combattuti. Innanzitutto con i mezzi preventivi e repressivi di cui dispone lo Stato. Governo, Magistratura e Forze dell’Ordine devono essere inflessibili nel vigilare e combattere intolleranza e violenza terrorista e i violenti senza compiacenze e distinguo partigiani. Nessun potenziale terrorista, senza distinzione di colore o di fede, deve poter credere in una colpevole impunità. Sono convinto che il Ministro dell’Interno lo capisce, giacché il suo dovere è proteggere la sicurezza di tutti sul territorio. Spero che questa linea prevalga dovunque, non solo da noi. La Nuova Zelanda è un paese tollerante e civile, ma deve agire senza debolezza e in modo esemplare per punire il terrorista australiano colpevole di strage, o altrimenti incoraggerà altri a imitarlo. Questo è un caso estremo in cui la pena di morte non sarebbe poi tanto incivile.

Ma il problema politico resta interamente aperto. Gli eccessi del razzismo bianco suscitano spontaneamente orrore diffuso quanto quelli islamici, ma rischiano di raccogliere simpatia o almeno comprensione in parti dell’opinione più esposte all’ossessione per l’eccesso di immigranti. Il problema da porsi senza ritardo o remore è quello dell’identità che vogliamo preservare. La diversità è in genere positiva e va difesa, ma ci sono limiti fisiologici oltre i quali il rischio di un profondo sconvolgimento della nostra natura, cultura e civiltà, diventa serio. In un recente articolo sul Corriere, Claudio Magris – non certo un estremista di destra – lo ha detto con molta eloquenza; negare, per un malinteso senso del “politicamente corretto, le nostre radici occidentali e cristiane, è un errore fatale, perché alla fine gioca nelle mani di quell’estremismo razzista che si vorrebbe evitare”. Magris cita in proposito alcune aberrazioni; la decisione danese di togliere dai libri di storia ogni riferimento al Cristianesimo e a tutto quanto possa offendere gente di altra civiltà; il caso della giudice tedesca che ha assolto un islamico colpevole di omicidio famigliare, sostenendo che egli avrebbe agito secondo la legge coranica a cui deve obbedienza. Ma di esempi di stupidità ce ne sono molti altri, come la rimozione del crocifisso dalle scuole, la laicizzazione del Natale da parte di certi presidi. E forse molti ricordano ancora l’indegna discussione che portò a eliminare dal preambolo della (poi fallita) Costituzione europea, ogni richiamo alle radici cristiane.

Affermare tranquillamente, serenamente, la nostra identità occidentale, illuminista e cristiana (se non dal punto di vista strettamente religioso, almeno nel senso in cui Benedetto Croce diceva che “non possiamo non dirci cristiani”) corrisponde al sentire maggioritario degli italiani (togliamo il penoso fanatismo dei centri sociali e di una parte della sinistra suicidaria, ma anche quello, in fondo contradditorio, della Chiesa di Bergoglio). Questo sentimento va ascoltato, perché se non lo facessimo lo consegneremo intero nelle mani della destra estrema. Chi vive in mezzo a noi, senza poter essere obbligato a farlo proprio, deve attivamente rispettarlo, come a ciascuno di noi viene richiesto, anche con mezzi coercitivi, di rispettare quello islamico se ci capita di vivere in un paese musulmano.

Ho sempre pensato che una politica sensata dell’immigrazione, al riparo del vociare interessato delle fazioni, debba essere consensuale e adottare due linee chiare: da un lato, limitare in futuro, quantitativamente e qualitativamente, l’immigrazione extra-europea (ed exrea-latinoamericana, che è a larghissima maggioranza positiva); dall’altro, incoraggiare a tutti i livelli, centrale e locale, una civile e pacifica integrazione degli immigrati nella nostra società. Rispettandone la cultura, ma esigendo – e, se del caso, imponendo – il pieno rispetto delle nostre leggi e dei nostri costumi. Non perché li riteniamo superiori, ma perché, molto semplicemente, sono quelli che ci fanno essere quello che siamo.

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