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19 Marzo 2019 - 16:42
Alla sinistra di Mussolini, il piemontese Cesare Maria De Vecchi
Il 23 marzo di cent’anni or sono nasceva il fascismo. Quel giorno del 1919, durante la famosa adunata milanese di piazza San Sepolcro, Benito Mussolini fondò i Fasci italiani di combattimento, un movimento che si definiva antipartitico, con un programma «sanamente italiano», «fortemente innovatore» e «rivoluzionario». Di lì a circa due anni e mezzo, in occasione del loro terzo congresso nazionale (Teatro Augusteo di Roma), i Fasci si trasformeranno nel Partito nazionale fascista.
Per quanto concerne le diverse località della provincia di Torino, le ricerche sulle origini del movimento permangono aperte. È certo che un ruolo di primissimo piano ebbero Mario Gioda, ex anarchico, deceduto nel 1924, e Cesare Maria De Vecchi, decorato con tre medaglie d’argento e due di bronzo durante la Grande guerra, presentatosi alle elezioni politiche del 1919 per il Blocco della vittoria, alla guida del Fascio di Torino dall’estate del 1920. Futuro quadrunviro della Marcia su Roma, quest’ultimo avviò un’attivissima opera di propaganda in tutta la provincia allo scopo di creare solidi nuclei di camicie nere, con pochi elementi molto decisi, mantenendo nel capoluogo ogni responsabilità di organizzazione e d’iniziativa. Dante Maria Tuninetti, segretario della federazione provinciale del Pnf a partire dal 1924, riferisce che gli squadristi miravano «a scardinare i comuni tenuti da rossi ed a fondare nuovi nuclei di combattimento» per diffondere «la religione della patria».
Caratteristica principale dei Fasci sorti fra il 1919 e la marcia su Roma era la posizione geograficamente strategica, come rileva Cristina Dosio in un saggio apparso su «Studi Storici» nel 1994. «Essi – precisa – vengono costituiti innanzitutto nella prima cintura di Torino» e nelle sei maggiori città della provincia, individuate in Aosta, Chivasso, Ivrea, Lanzo, Pinerolo e Susa. All’epoca lo squadrismo ignorava rigide distinzioni fra città e campagna. «L’epicentro – spiega lo storico Mimmo Franzinelli – rimase inizialmente localizzato nei centri urbani, da dove partivano verso il contado agguerrite colonne che, in una sola giornata, raggiungevano più località, in ognuna delle quali si percuotevano i rossi e se ne devastavano le sedi. Solo in un secondo tempo sorsero, nelle zone periferiche, gruppi autonomi che, tuttavia, nei momenti di crisi, si appellavano alle squadre cittadine». Il fascismo urbano, insomma, «si estese per osmosi a livello provinciale […], fornendo uomini, mezzi e finanziamenti alla rete periferica».
A Settimo Torinese, per esemplificare, importante fu l‘azione di Fran¬cesco Merlo, responsabile politico e organizzativo del locale Fascio, segretario federale dal dicembre 1921 al maggio 1922. Nel giugno 1921, durante la tradizionale cerimonia di chiusura dell’anno scolastico, il sindaco socialista Luigi Raspini non gli concesse la parola. Furibondo, rilevando «affermazioni di criminale antitalianità» nella cronaca apparsa sul periodico «Il Grido del Popolo», il segretario del Fascio indirizzò al sindaco una lettera dai toni sprezzanti e minacciosi, domandandogli se condivideva il parere di chi si era detto nauseato per lo «sfoggio» di bandiere italiane e per i «balletti tricolori» messi in scena dalle scolaresche. L’esposizione della bandiera – proseguì Merlo – deve «considerarsi uno spregio alla cittadinanza»?
È chiaro che il Fascio di Settimo, nel giugno 1921, a due anni dalla adunata di piazza San Sepolcro, non solo risultava costituito e operante, ma si sentiva tanto forte da sfidare la sinistra in un centro di forti tradizioni operaie e socialiste. È altrettanto chiaro che il fascismo stava mettendo radici un po’ ovunque nella provincia di Torino.
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