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SETTIMO. I briganti di Settimo Torinese

SETTIMO. I briganti di Settimo Torinese

Non sono rari, in Piemonte, i luoghi che conservano memoria degli antichi briganti. Raccontano le cronache che la strada Cebrosa, nel tratto tra Foglizzo e Torino, era alquanto insicura. Fin verso la fine del Settecento, guardando dai finestrini delle carrozze, sembra che i viaggiatori potessero vedere macabre scene. Ai rami degli alberi, infatti, pendevano braccia e altre membra di banditi giustiziati. Con un briciolo d’ironia e anche di esagerazione, il cronista consigliava di fare testamento prima d’intraprendere un viaggio. Ancora nel diciannovesimo secolo si narravano storie raccapriccianti di rapine e omicidi avvenuti lungo la stessa strada.

La poca sicurezza delle campagne per quasi tutto il Settecento è documentata da un’infinità di ordinanze, editti e decreti contro malviventi, oziosi, vagabondi e autentici briganti. Emblematica è la deliberazione che il consiglio della comunità di Settimo Torinese assunse nel 1746 per il pattugliamento notturno delle strade. Nove anni più tardi il Comune deliberò di acquistare dodici fucili per armare coloro che dovevano «battere le strade ed inseguire li malviventi».

Il periodo d’oro del brigantaggio subalpino è costituito dagli anni a cavallo fra il Settecento e l’Ottocento, durante i torbidi che seguirono alle due occupazioni francesi del Piemonte e all’invasione austrorussa. Pur tenendo conto che il termine «brigante» era allora usato in senso dispregiativo per indicare coloro che si ribellavano alle requisizioni e ai soprusi dei militari francesi, non si può negare che molti, qualificandosi come controrivoluzionari, rubavano, taglieggiavano e uccidevano.

L’8 luglio 1801 il «Diario Torinese» segnalò la presenza di numerosi malviventi nelle campagne attorno a Torino. Poche settimane dopo lo stesso periodico avvertiva che cadaveri di persone assassinate giacevano insepolti lungo la strada di Settimo. Anche nei folti boschi attorno all’abitato di Volpiano imperversavano assassini e tagliagole.

Il 6 settembre 1801 il parroco di Settimo annotò la sepoltura di due giovani del paese: catturati entrambi presso la cascina Banchera, erano stati uccisi sul posto dai gendarmi. La situazione doveva apparire davvero allarmante se la municipalità di Settimo si vide costretta a chiedere la presenza continuativa di un reparto militare nel paese. E il generale Emmanuel de Grouchy distaccò ben cento soldati.

Pare che presso la «Rosa Rossa», un’osteria nella Contrada Maestra (l’attuale via Italia) di Settimo, i malfattori trovassero compiacente ospitalità. La gente raccontava che i proprietari del locale erano divenuti improvvisamente ricchi, essendosi impossessati del bottino che alcuni banditi avevano nascosto nel cortile, in fondo al pozzo. Purtroppo  le fonti d’archivio sono avare d’informazioni.

Degli antichi briganti, ai giorni nostri, rimangono abbondanti tracce nella memoria collettiva. In alcuni di loro si rispecchia una certa anima popolare con le sue paure, le sue aspirazioni di giustizia sociale, i suoi sentimenti imperscrutabili. È il caso del celebre Giuseppe Mayno di Spinetta Marengo (ucciso nel 1806) che una certa tradizione presenta come il temerario che raddrizza i torti, il campione della povera gente che deruba soltanto i grassi borghesi e gli usurai, burlandosi dell’autorità costituita. Altrettanto si può dire per il canavesano Antonio Mottino, impiccato nel 1854. Le vicende di cui i due fuorilegge furono protagonisti appartengono sia alla storia sia all’aneddotica ingenua e inverosimile, ma intessuta di finalità moralizzatrici e didascaliche, non disgiunte da suggestioni romantiche.

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