"Non so perché mio cugino ha detto tutte quelle cose su di me. Non posso entrare nella sua testa. Forse sarà l'invidia. Io posso dire che all'epoca dei fatti avevo due lavori che mi impegnavano anche più dieci ore al giorno, giocavo a calcio in Eccellenza e mi allenavo cinque volte alla settimana. E sono sempre stato lontano dai guai". Domenico Agresta, di Volpiano, imputato di 'ndrangheta a Torino nel processo d'appello Minotauro bis, ha risposto così ai motivi per i quali un nuovo pentito, suo omonimo ma di qualche anno più giovane, lo ha indicato come affiliato alla criminalità organizzata calabrese con la dote di 'Padrino'. "Durante l'inchiesta - ha spiegato - nel 2013 siamo anche stati detenuti insieme. Ma a me, in carcere, non è mai capitato che qualcuno mi facesse discorsi sulla 'ndrangheta, mi chiedesse di riti o cerimonie, di mostrasse dei segni, mi recitasse filastrocche. Lui ha detto così. Chissà, la sua detenzione è stata più lunga. Lui in carcere leggeva tutti i libri sull'argomento, compreso quello famoso di Gratteri. A me non interessavano. Ne leggevo altri. Ho anche composto qualche poesiola". Il pentito Domenico Agresta, 29 anni, ha reso dichiarazioni su numerose vicende, fra cui spicca l'omicidio (nel 1983) del magistrato Bruno Caccia, e ha raccontato che in carcere ha scalato numerosi gradini della scala gerarchica della 'ndrangheta per intercessione del padre, Saverio. "Io e mio cugino - ha detto l'imputato - siamo cresciuti insieme. Eravamo come fratelli. Poi lui andò a Milano. Quando tornò era cambiato: io lavoravo dieci ore al giorno, lui non faceva nulla, frequentava gente sbagliata, combinava disastri. Esternai le mie preoccupazioni persino a zio Saverio: prevedevo che prima o poi si sarebbe infilato in qualcosa di brutto. Infatti si prese 30 anni. Non lo so perché racconti quelle cose. Io avevo degli amici, una fidanzata, lui no. Era sovrappeso, e lo sport non sapeva cosa fosse".
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