Sana Cheema, Farah e le altre vittime di simili femminicidi

Sana Cheema è stata uccisa. Farah costretta ad abortire. Sono le ultime di molte vittime

Sana Cheema è stata uccisa in famiglia. Voleva sposarsi con un giovane italiano di origine pakistana, come lei. Aveva 25 anni. Viveva a Brescia ed era tornata in Pakistan a trovare i genitori, che però non lo accettavano, perché lui era già promesso sposo di un’altra. Tutte cose decise a tavolino, ma non dagli interessati. Roba da Medioevo, che tuttavia in alcune parti del mondo continua ad esistere, come ha ricordato il responsabile della moschea bresciana, Sajad Hussain: «Ci sono ancora delle persone che, mettendo da parte la libertà data dalla costituzione pakistana e da quella italiana e anche dalla stessa religione, pensano di poter decidere la vita e la morte dei propri figli. Pensano di poter nascondere un fatto che secondo la loro ignoranza potrebbe mettere in cattiva luce la famiglia e che invece diventa poi un caso di cui parla tutto il mondo». Quando è morta la famiglia aveva comunicato che si era trattato di un infarto. Invece l’autopsia ha chiarito che le è stato rotto l’osso del collo. Suo padre, Mustafa Ghulam, ha confessato. Poi ha fatto una mezza ritrattazione: «Se il referto dei medici legali dice che Sana aveva l’osso del collo rotto, è perché deve aver battuto la testa contro il bordo del letto o il divano». Infine ha delirato: «se le cose sono andate così è per il volere di Allah». Con lui è finito dentro anche il fratello di Sana, Adnan Cheema, 31 anni. Ma anche la mamma e una zia sono indagate.

Farah e le altre

Nemmeno il tempo di metabolizzare la tragedia e scoppia il caso di Farah, 19 anni, incinta di un giovane italiano, costretta con l’inganno a rientrare in Pakistan, dove è stata segregata dai famigliari: «Mi hanno sedato, legato a un letto e costretto ad abortire» ha detto la ragazza dopo la liberazione da parte della polizia. Ha chiesto di rientrare subito in Italia, a Verona, dove risiedeva. A salvarla sono stati i messaggi di aiuto inviati alle amiche via Whatsapp. Anche la sua famiglia voleva decidere per lei. E usare la forza per soggiogarla. Sono storie cicliche, che hanno avuto spazio sulla cronaca nera fin dal 2006. Fu allora che scoppiò il caso più noto: quello di un’altra giovane pakistana, Hina Saleem, che conviveva a Sarezzo con Giuseppe Termini, un ragazzo con cui forse, un giorno, si sarebbe sposata. Fu sgozzata dal padre e da due zii e sepolta nell'orto di casa. Il motivo? Secondo la Cassazione il padre – condannato a 30 anni- sfogò “la riprovazione furiosa del comportamento negativo della propria figlia”, che voleva vivere liberamente la sua vita convivendo con il fidanzato, non per “ragioni o consuetudini religiose o culturali, bensì sulla rabbia per la sottrazione al proprio reiterato divieto paterno”.

Passarono tre anni e, a settembre 2009, a Monte­reale Valcellina, in provincia di Pordenone, la diciottenne di origine marocchina Sanaa Dafani venne sorpresa nell'auto del fidanzato italiano dal padre: la uccise a coltellate. Un anno più tardi padre e figlio “punirono” a sprangate la figlia che rifiutava un matrimonio combinato con un connazionale. La madre, che la difendeva, fu uccisa a sassate. Scena del crimine Novi di Modena. Nel 2015 la vittima del folle padre, Nosheen Ahmad Butt, ottenne la cittadinanza italiana per meriti speciali. Del fratello Umair, che aiutò papà nell'assalto famigliare, disse: «Quello che ha fatto non è bello ma l’ho perdonato e mi manca. Quando ero piccola non avevo amiche, i miei amici erano mia madre e mio fratello, solo loro».

Kaur Balwinde, indiana ventisettenne, aveva invece il solo torto di vestire troppo all'occidentale: fu strangolata e gettata nel Po dal marito nel 2012. Jamila, infine, nel 2016 si salvò quando raccontò la sua storia ad un’insegnante: rifiutava il matrimonio combinato con un cugino per ragioni economiche. «Temo di fare la fine di Hina» le confidò. Per fortuna, quella volta, non andò così.