1968, il futuro è già passato e neanche ce ne siamo accorti

di Gianni Paoletti

  Un fiume di “come eravamo” inonda un cinquantennale avvertito con una vena, in fondo, malinconica: il mezzo secolo del Sessantotto. Sembrerebbe adatta a definire l’occasione la tonalità nostalgica racchiusa in una battuta amara, che definiva un’altra generazione disillusa, in uno dei capolavori di Ettore scola, C’eravamo tanto amati: «il futuro è già passato e neanche ce ne siamo accorti».  Il Sessantotto appare come un futuro mai arrivato, anzi un passato che mirava ad un futuro che, se è arrivato, non aveva più le forme che ci si sarebbe aspettati allora: qualcosa di trascorso, insomma, oltre – o forse anche di lato, se non addirittura di traverso – le intenzioni che lo avevano mosso. Il Sessantotto, quindi, come nostalgia perenne, aspettativa disillusa, mutazione rimasta allo stadio di promessa.

In Italia il Sessantotto costituisce un insieme di miti, entusiasmi, passioni e illusioni, ma anche di rimpianti, recriminazioni, pentimenti, speranze tradite, ricusazioni, dissociazioni persino. Anch’esso, quindi, fa parte di una memoria controversa: divisa fra chi lo esalta come età dell’oro e chi lo rinnega come inizio del declino italiano, punto d’origine di una serie di interminabili sciagure successive. Forse, il Sessantotto italiano è stato “solo” l’anno in cui una generazione figlia della borghesia, nata nell’agiatezza o giuntavi attraverso gli effetti del recente boom economico, pensò di poter cambiare la struttura della società italiana: nell’università, nella scuola, nelle fabbriche, nella Chiesa, nella famiglia, nelle carceri, nelle caserme e in altri luoghi generalmente “sociali”.

Il Sessantotto, come i telefilm e la cultura popolare, arrivava in Italia dall’America: le università occupate, i diritti civili, la società ridotta a consumo e carrierismo fine a se stessi, questi i mantra. Poi, la insensata avventura in Vietnam diede agli atenei americani un altro motivo di agitazione, forse il più lacerante di tutta la storia statunitense. E proprio il Vietnam diventò in Italia una metafora complessiva della protesta, almeno in una duplice chiave. Una politica: quella che aggregava gli studenti nei cortei in cui si manifestava solidarietà al piccolo e combattivo popolo vietnamita, un Davide apparentemente inerme aggredito proditoriamente da un Golia incapace, nonostante la manifesta superiorità tecnica e di mezzi, di vincere una guerra senza fronte. Non a caso, la Rai censurò la celeberrima C’era un ragazzo: la storia in forma di canzonetta di un qualche Johnny morto nel fiore degli anni, e soprattutto per niente, nella giungla o a Khe Sanh poteva generare, forse, qualche imbarazzo nei nostri rapporti con l’alleato capofila della Nato. Una chiave, poi, simbolica: il “Vietnam è in fabbrica” si leggeva sui muri dei quartieri proletari delle metropoli del nord: qualsiasi luogo in cui imperversasse un’ingiustizia messa in atto da un potere oppressivo e autoritario, fondato sull’esercizio della violenza, era, lato sensu, un Vietnam. Il Sessantotto fu, quindi, da subito anche una mitologia delle minoranze dalla parte della ragione, e non per una pura moda da t-shirt fra i suoi miti non poterono non svettare, quindi, le icone delle lotte di liberazione: Ho Chi Minh, Ernesto “Che” Guevara, Mao, Yasser Arafat, Bob Kennedy e Martin Luther King, tanto più assurti a mito, gli ultimi due, per via della loro fine da cadaveri eccellenti – e ammazzati – sopraggiunta proprio quell’anno. Anche un filosofo divenne un’icona rivoluzionaria: Herbert Marcuse, l’autore dei libri simbolo della rivolta studentesca: l’individualismo, il consumismo, l’autoritarismo, la società di massa, l’opulenza sfrenata della società americana e la politica estera di potenza statunitense rilucevano nelle sue pagine come i nemici assoluti di ogni umanesimo possibile: Woodstock, l’anno dopo, sarebbe stata la versione appena degradata di quel “grande rifiuto” marcusiano. Il marxismo, nelle sue diverse declinazioni, divenne la rinnovata Bibbia rivoluzionaria che affascinò una gioventù convinta della propria vocazione ad un nuovo, definitivo, messianismo politico: la visione di una redenzione finale della storia, del raggiungimento di uno stadio di giustizia e di pieno umanesimo, con la classe operaia a incarnare un Messia storico che avrebbe portato tutti alla redenzione. Un sogno, insomma.

Fra le icone del Sessantotto italiano vi fu anche Don Lorenzo Milani, scomparso nel 1967, fondatore della scuola di Barbiana, sulle colline della Toscana più remota, misera e meno sviluppata: la scuola dei poveri, quei poveri, figli dei contadini, che finivano spesso bocciati alla scuola pubblica, come si legge in Lettera a una professoressa, per mano di un corpo insegnante classista, intransigente coi figli di nessuno e indulgente con i figli della borghesia. Vi fu, dunque, un Sessantotto cattolico: quello che rivendicava, anche sulla scorta del Concilio Vaticano II e della successiva Populorum progressio di papa Paolo VI, la Chiesa come Chiesa dei poveri, degli ultimi, in conformità al dettato evangelico. Nel Sessantotto dei cattolici si ripresentò, quindi, una dicotomia tipica di tutta la storia della Chiesa: ad una Chiesa pauperistica e progressista se ne opponeva una conservatrice e paternalistica, secondo una dialettica tradizionale del mondo cattolico. Quando, già nel 1967, viene occupata la Cattolica di Milano gli studenti scrivono: «il Concilio ha detto: Chiesa dei poveri. La Cattolica ha detto: Università dei ricchi».

Nel Sessantotto italiano entra anche la paura del golpe: lo spettro del colpo di stato militare in Grecia avvenuto nel 1967, a cui inneggiavano i neofascisti italiani, faceva aleggiare la preoccupazione che anche l’Italia corresse lo stesso pericolo. È un fatto che Pasolini nel celebre articolo del 14 novembre 1974, Che cos’è questo golpe, pubblicato dal “Corriere della sera”, e poi Aldo Moro, nel cosiddetto Memoriale del 1978, fanno la medesima osservazione: la strategia della tensione – le bombe deflagrate nelle piazze o sui treni dal 1969 al 1974 – aveva avuto fra i suoi compiti quello di ricondurre il Paese entro i limiti da cui anche il Sessantotto lo aveva fatto uscire. Un “sommerso” della Repubblica, antidemocratico e reazionario, aveva tentato con trame e stragi di fermare il cambiamento che anche nel Sessantotto si era mostrato.

Il Sessantotto fu anche una guerra alla censura: già nel 1966-67 nelle riviste scolastiche dei licei italiani i presidi vietano di scrivere di Vietnam, fascismo spagnolo, religione, pacifismo, movimenti giovanili, educazione sessuale, regolamenti scolastici. Il caso più clamoroso si consumò nel prestigiosissimo liceo “Parini” di Milano, il liceo della Milano “bene”, quando i redattori della rivista scolastica “La Zanzara” fecero un’inchiesta che indagava i turbamenti sessuali di studenti e studentesse: furono denunciati e processati. La scuola e l’università furono, in ogni caso, più della fabbrica, il luogo della rivolta. Il Sessantotto italiano ebbe, infatti, il suo culmine, anche simbolico, con le occupazioni delle facoltà: a Torino già alla fine del 1967 fu occupata Lettere, a Milano l’intera, ultra-tradizionalista Cattolica. Già nel 1966 era stata occupata la neonata, formicolante Facoltà di Sociologia a Trento: le occupazioni contestavano il classismo, l’autoritarismo, l’inadeguatezza della proposta didattica, proponendo una propria didattica alternativa, corsi autogestiti, esami collettivi, il 18 politico. Della scuola e dell’università si contestava non solo che fossero classiste, riservate in sostanza ai figli dei ricchi e dei borghesi, ma anche che fossero utilizzate per produrre ulteriore consenso nei riguardi del sistema di cui erano diretta espressione. Poi, nel marzo del 1968 toccò alle Facoltà di Lettere, Giurisprudenza e Architettura di Roma: gli scontri di Valle Giulia sono l’evento-manifesto del Sessantotto italiano. Pasolini, sorprendendo tutti, solidarizzò in quei giorni con i poliziotti mandati a sedare la ribellione studentesca: i poveri, i proletari, a Valle Giulia – scrisse – erano i poliziotti, mentre i borghesi, i figli di papà, i figli dei ricchi erano proprio gli studenti. Paradossalmente, i primi la classe oppressa, i secondi la classe degli oppressori. Pasolini, fra le tante cose che intuì, comprese, forse per primo, quel che oggi si rinfaccia all’ideal-tipo radical chic: una sinistra allora piazzaiola, oggi trasferitasi nei raffinati salotti di Capalbio, che non sapeva allora, come non sa oggi, come gli ultimi ce la facciano a sopravvivere alle tempeste che arrivano solo ai piani bassi e di cui negli attici non si percepisce nemmeno l’eco.

Una specificità del Sessantotto italiano fu la solidarietà e la collaborazione fra studenti e operai: i primi contestavano l’autoritarismo nelle università, i secondi quello nelle fabbriche. Autogestione, assemblea, «il nostro alleato naturale è la classe operaia»: queste le parole d’ordine degli studenti che occupavano le università italiane e che andavano ai picchetti davanti agli stabilimenti: un’altra cosa di cui a Capalbio non si ha più nemmanco una vaga memoria. Le ottuse prese di posizioni dei docenti più conservatori e reazionari, dei baroni, sono capolavori di comicità involontaria: «la lezione è un fatto naturale, come l’ostrica produce la perla così il professore fa le lezioni»; oppure questa perla di un rettore: «il controspionaggio mi aveva avvertito: degli agenti russi si sono infiltrati tra di voi».

Nel 1966, nel corso di violenti scontri all’università di Roma, lo studente socialista diciannovenne Paolo Rossi venne ucciso dai neofascisti: è un fatto che anche da una parte del Sessantotto nacque la violenza politica, dapprima rivendicata come una presunta, necessaria “autodifesa” di una sinistra spaventata dallo Stato presuntivamente golpista, dalla violenza che governava la fabbrica e l’aula, dalla destra neofascista a cui veniva lasciato campo libero da istituzioni ancora saldamente in mano a uomini del Ventennio. Certo, dopo piazza Fontana, questa sinistra extraparlamentare armata e violenta si sentirà giustificata, in un cupo, folle sogno di rivoluzione, a fare ricorso alle armi.

Il Sessantotto fu, forse, alla fine, una parte di quella mancata rivoluzione democratica che avrebbe dovuto apportare le grandi riforme, che poi, nei decenni successivi, furono eluse, rinviate, svuotate o, peggio, finte. E fu anche, nel mancato governo di un progresso materiale e di una mutazione sociale e antropologica, come scriveva Pasolini, avvenute con il boom economico, la degenerazione talora anarcoide che risultò, disordinatamente, dai tanti bisogni, reali e indispensabili, di liberazione. Nel Sessantotto ci si illuse di ridefinire la politica, mediante una politicizzazione del quotidiano, nel tentativo di restituire una dignità all’agire pubblico: nei decenni successivi, di questa finalità nobile si vide, per molti versi e secondo forme anche molto sottili e tanto più insidiose, il quasi totale fallimento. Aldo Moro, con la solita acutezza, aveva intuito, tuttavia, che il Sessantotto non era stato solo un fuoco di paglia, ma il sintomo di un processo molto più vasto: «siamo davvero ad una svolta della storia e sappiamo che le cose sono irreversibilmente cambiate, non saranno ormai più le stesse».

Fra detrattori e nostalgici, a mezzo secolo di distanza, il Sessantotto è forse il simbolo di un’occasione mancata, più che un evento di cui si possano delineare i contorni con precisione. È la nostalgia, per usare un’espressione di Max Horkheimer – d’altro canto, usata in un diverso senso e contesto -, di un “totalmente Altro” destinato a rimanere un ideale regolativo: e forse, è questo carattere regolativo che ne preserva il potenziale ancora inespresso. E in un Paese «scombinato come l’Italia», come scriveva ancora Moro dalla sua “prigione” brigatista, a fare una rivoluzione basterebbe un atto di normalità, come aveva capito già prima di quell’annus mirabilis un altro grande italiano, Ennio Flaiano: «mi accorgo che si può essere sovversivi soltanto chiedendo che le leggi dello Stato vengano rispettate da chi governa».
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© Gianni Paoletti, docente di storia e filosofia. Tra le sue varie pubblicazioni: “John Fante, storie di un italo americano” (2005) e “Vite Ritrovate” (2011)

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