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Cultura

Massimo Siragusa: "La casa è rifugio, luogo di incontro, status sociale, affermazione di identità. Non averla è come perdere tutto"

Fondo Fucile (Messina), ottobre 2008. Baraccopoli, via 26/a. Famiglia Passari, nucleo di tre persone © Massimo Siragusa/Contrasto.
Fondo Fucile (Messina), ottobre 2008. Baraccopoli, via 26/a. Famiglia Passari, nucleo di tre persone © Massimo Siragusa/Contrasto. 

Scorci di un paese, una viuzza stretta dietro l'angolo, case con pareti dai colori acquerello scartavetrate dal sole, dai venti e da tempeste, una cornice bianca, ancora mura e finestre vuote, un albero vivo, un cancello arancione circondato dall'edera, l'interno di una chiesa, le saracinesche abbassate. Apriamo "Respirano i muri" (contrasto editore) di Paolo Di Stefano e sono le foto di Massimo Siragusa - dense e limpide, immediate ed evocative, come le definisce Goffredo Fofi nella prefazione - a parlare per prime, a coinvolgerci e a portarci in un mondo presente in cui però è proprio il passato ad essere più attuale che mai.

Se Di Stefano ricorda con le sue parole le case delle sue "migrazioni" da sud a nord e poi ancora a sud fino al centro della nostra Penisola - da Avola, in Sicilia, in provincia di Siracusa, "un paese dell'anima anche per chi non vi è nato" – Siragusa lo fa invece con immagini che raccontano e ricordano momenti, segreti, passioni, periodi di una vita vissuta o solo immaginata. La casa è una tana, un rifugio primordiale indispensabile di cui ogni essere umano ha bisogno per nascondersi e difendersi, per scaldarsi e sopravvivere, per celebrare i suoi riti e di tutte - quelle dell'infanzia - sono quelle che più di altre ci torneranno spesso in mente. "Riconoscerei le case in cui ho abitato dall'odore, quello dei corpi e dei legni, dei pavimenti e dei marmi, delle pareti e delle tende, della luce e dell'aria che filtra dalle finestre e dalle porte", scrive Di Stefano ricordando la sua prima casa in assoluto nel suo paesino, in corso D'Agata, quello delle mandorle, quello che correva dalla stazione fin quasi ad arrivare al mare.

Agnone Bagni (Siracusa), gennaio 2016 © Massimo Siragusa/Contrasto.
Agnone Bagni (Siracusa), gennaio 2016 © Massimo Siragusa/Contrasto. 

"Respirano i muri come respirano gli uomini e le donne, respirano le case, assorbono l'aria, il fiato, l'alito, l'odore di chi le abita, gli urli, i pianti, le risate, i corrugamenti facciali, i gesti e gli sguardi dei vecchi, gli scatti d'ira e gli slanci di gioia, gli aromi del cibo e dei ricordi, l'acido, il chiuso dei vetri, le confidenze, l'intimità che si libera dalle bocche, dagli occhi, dalle mani", scrive, "e i nostri polmoni respirano quei muri, intonaci scrostati, mattoni sfarinati, tufi rosi dalla salsedine. Respirano le cose, le case, e le case inspirano le nostre parole che, se capita, diventano memoria".

"Con la casa in sé ho sempre avuto un rapporto complesso", spiega invece Siragusa all'HuffPost. "Mio padre era ingegnere e aveva uno studio a Enna e uno a Catania, circa ottanta chilometri tra una città e l'altra, ma all'epoca ci volevano due ore per percorrere quel tragitto all'andata come al ritorno. Questo ha comportato un certo distacco nei confronti delle case in cui abitavo. Ci spostavamo di frequente e la mia casa era la macchina". "In primavera ci trasferivamo in una casa in campagna nella piana di Catania e poi in un'altra casa ancora, ma al mare, da giugno a settembre, ma persino a Enna non trovavo pace perché c'era un vento che ululava di continuo da mattino a sera", continua il fotografo, vincitore di quattro World Press Photo e di tre Sony Awards, insegnante allo IED di Roma e autore di diversi libri pubblicati in tutto il mondo, tra cui questo, uscito per la collana In Parole ideata da Roberto Koch dove la prima e la seconda parte, "quella da cui ha avuto inizio il progetto", sono ben diverse tra loro.

Priolo Gargallo (Siracusa), gennaio 2016 © Massimo Siragusa/Contrasto.
Priolo Gargallo (Siracusa), gennaio 2016 © Massimo Siragusa/Contrasto. 

"La casa era un luogo da cui scappare continua - e quello che ho fatto è stato trasferire la necessità di un punto di riferimento dall'interno all'esterno". Mi trovavo meglio quando ero fuori, perché ogni casa aveva delle problematiche". Ancora oggi che abita Roma, tra lui e la casa del momento, c'è un rapporto indefinito e momentaneo, una "relazione" non duratura tanto che dopo un po' di anni, deve essere sostituita da un'altra, nuova, diversa, necessaria per farlo sentire ancora vivo. "Guardando quelle fotografie – aggiunge - posso dirvi che la prima parte delle stesse è molto autobiografica. Ho voluto raccontare il mio modo di vedere le case e ho voluto farlo attraverso questo libro".

Non amare le case in cui abitava è dipeso dal suo atteggiamento o da quella realtà in cui viveva?

"Potrei rispondere da entrambi, ma in realtà so che è dipeso – e dipende – solo da me. Ho sempre vissuto la casa come una sorta di prigione da cui muoversi e partire".

Quindi questo libro dal titolo così poetico, "Respirano i muri", ha avuto per lei una sorta di valore terapeutico? Come è nata l'idea?

"In qualche maniera sì. La sua nascita ha avuto una gestione abbastanza lunga. L'ho pensato io e poi, dopo aver conosciuto Paolo ad un concorso, gli ho proposto un coinvolgimento nel progetto. Esisteva già la seconda parte, quella del mondo inquieto, con gli interni mossi e colorati, vuoti come riempiti all'inverosimile, quelli di case occupate abusivamente, di baracche, di quartieri popolari abbandonati al degrado a Roma come nel napoletano, ed è proprio partendo da quella parte che ho deciso di coinvolgerlo. Abbiamo ragionato sul da farsi, poi lui ha scritto un testo sui muri e abbiamo allargato la visione della cosa. Le case sono state il punto di riferimento e di partenza e poi i muri che respirano. Abbiamo lavorato su suggestioni comuni".

Per la prima parte, quella più legata alle parole di Di Stefano, come ha scelto i posti e i paesi da fotografare?

"L'ho fatto in base ad un mio coinvolgimento emotivo che ho con quei luoghi che sono i luoghi in cui ho vissuto o in cui ho avuto un interesse personale come una gita con i miei genitori, l'incontro con la mia prima fidanzata o con amici".

Nella seconda parte, invece, gli interni di quelle case con situazioni molto complicate, emanano una forza espressiva enorme, sicuramente perché nel dramma e nella tragedia c'è sempre una grande bellezza. È per questo che le ha fotografate?

"Sì, ma soprattutto perché da anni volevo confrontarmi sul tema dell'abitare case occupate, case popolari, industrie poi resse abitabili. Ad unirle è il concetto di precarietà. La mia, comunque, non è mai una denuncia sociale, ma un viaggio nel mio inconscio, nella parte più recondita di me. Volevo confrontarmi con questo, è un mio modo personale di mettermi in discussione con una realtà difficile. Hanno l'aspetto di denuncia, ma non era quello l'obiettivo principale. Volevo solo mettermi a confronto con quella realtà cercando di capire quale fosse l'equilibrio che potevo riuscire a trovare".

Roccalumera (Messina), giugno 2017. Via G. Verdi © Massimo Siragusa/Contrasto.
Roccalumera (Messina), giugno 2017. Via G. Verdi © Massimo Siragusa/Contrasto. 

In quelle foto di stanze e di interni, nonostante non ci siano mai persone, c'è una forte presenza dell'uomo data da migliaia di oggetti, anche da cumuli di spazzatura come quella al Laurentino, a Roma, è così?

"Ha ragione, in quelle immagini la presenza umana è ovunque. Quella fatta in un basso di Napoli, ad esempio, è una stanza con un solo letto ma ci sono tantissimi peluche tutti in ordine. Quell'angolo è comunque vivo, il simbolo di una voglia di normalità nonostante il delirio in cui vive chi vi abita"

Di forte impatto, anche quella con i due lettini...

"L'ho scattata ad Afragola. Mi colpirono subito quei due letti coperti da un lenzuolo senza un poster alle pareti, senza alcun gesto di presenza dei ragazzini che vi abitano. Una foto che trasmette solo vuoto e disagio".

Come ha scelto un posto invece che un altro?

"Ne sono venuto a conoscenza attraverso inchieste giornalistiche o ricorrendo io personalmente a strutture di assistenza sociale".

Come li hai convinti?

"Sono andato sempre aiutato da qualcuno che in quel luogo aveva un percorso già fatto. Nessuna di quelle persone che abita in quei posti, dal quartiere Zen di Palermo al Laurentino 38 di Roma, dagli edifici di via Plebiscito a Catania a Napoli e a Bari me lo ha mai detto in faccia, ma io sono convinto che lo hanno fatto perché convinti di poter cambiare la propria condizione".

È successo?

Che io sappia, purtroppo ancora no e non so se succederà mai".

Quando torna da posti simili, cosa fa, come reagisce, come si comporta?

"Avverto una sensazione di liberazione: sono a casa mia – penso – e posso godere delle bellezze che ho in quella che oggi è la mia dimensione. Poi, però, non riesco a dimenticare quella realtà. Quello che so è che vivo in una condizione provvisoria: chi mi dice come sarà il mio futuro? Non dò per scontato niente".

La sua casa oggi dov'è?

"È diventata la Sicilia nella sua interezza, non un singolo luogo specifico. Varco lo stretto e mi sento a casa, accolto. Vivo a Roma, una città non facile dove ho cambiato diverse case, perché è come se quel cambiamento sia necessario per riorganizzarmi. Oggi sono a San Giovanni, domani non lo so. Ogni volta che cambio posto, le uniche cose che mi porto dietro sono alcuni oggetti di famiglia, orologi, argento, quadri della casa dei miei, oggetti con cui ho avuto una relazione quando era bambino e che fanno parte della mia vera identità. Mi porto i libri, l'unica cosa che mi sono sempre portato dietro, perché fanno parte della mia identità, e i miei cd di musica jazz, irrinunciabili".

In tutti questi spostamenti, la fotografia – che è il suo mestiere – possiamo dire che l'ha aiutata?

"Assolutamente, perché è stata la necessità di mettermi in discussione, la necessità di confrontarmi con il mondo e di capirlo, di far uscire all'esterno ciò che credo di essere. È una relazione verso l'esterno e con l'esterno. Ho fatto lavori di denuncia e lavori giornalistico, l'ho sempre vissuta come un fatto contingente. Volevo esprimermi in quel modo e oggi, se guardo quel che ho fatto e che faccio, posso dire di esserci riuscito. In me c'è una massima libertà che non è solo scelta del soggetto, ma anche una giusta relazione e distanza con le cose che voglio raccontare. Questo regola, è fondamentale".

Vita (Trapani), comune del Belice, febbraio 2016 © Massimo Siragusa/Contrasto.
Vita (Trapani), comune del Belice, febbraio 2016 © Massimo Siragusa/Contrasto. 
Linguaglossa (Catania), giugno 2017. Via del Teatro © Massimo Siragusa/Contrasto.
Linguaglossa (Catania), giugno 2017. Via del Teatro © Massimo Siragusa/Contrasto. 
Campobello di Mazara (Trapani), febbraio 2016 © Massimo Siragusa/Contrasto.
Campobello di Mazara (Trapani), febbraio 2016 © Massimo Siragusa/Contrasto. 
Stazzo (Catania), giugno 2017. Via Spiaggia © Massimo Siragusa/Contrasto.
Stazzo (Catania), giugno 2017. Via Spiaggia © Massimo Siragusa/Contrasto. 

Il libro "Respirano i muri" sarà presentato a:

CATANIA: martedì 27 marzo, ore 19.00, Libreria Cavallotto.

SIRACUSA: mercoledì 28 marzo, ore 18.30, Libreria Casa del Libro.

BOLOGNA: sabato 7 aprile, ore 18.30, Foto Image.

TORINO: mercoledì 11 aprile, ore 18.30, Libreria Il Ponte sulla Dora.

ROMA: venerdì 4 maggio, ore 19.30, Leica Store Piazza di Spagna.

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