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Politica

L'offerta di Di Maio a Lega e Pd: un "contratto alla tedesca" per il governo. Ma chiede un doppio parricidio: via Berlusconi e Renzi

ANSA
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Un vero e proprio contratto di governo, più simile a quelli che raggruppano le maggioranze politiche in Germania che alla boutade ripetuta più volte da Silvio Berlusconi nei salotti televisivi. È questa la mossa dell'ultim'ora di Luigi Di Maio. Più per farsi dire di no e dunque avere in mano una potente arma comunicativa che non per tentare di non far andare a vuoto il primo giro di consultazioni. Insieme, per la prima volta, lancia un appello alla Lega, identificandola pubblicamente come mai prima d'ora, quale interlocutore privilegiato e al di fuori del contesto del centrodestra: "Vediamo se si stacca da Berlusconi per fare le cose che servono al paese".

I tempi sono strettissimi. E, ragiona chi ha accesso alla war room stellata, è anche un modo per riprendere in mano il pallino dell'agenda politica e rivendicare una posizione di forza: "Noi siamo i responsabili - il cuore del ragionamento - e abbiamo stanato il gioco dei veti degli altri". La testa del capo politico 5 stelle è bifronte. Guarda sia alla Carroccio sia al Pd. Chiedendo che i Dem si liberino di Matteo Renzi, per sedersi attorno a un tavolo e ragionare sui contenuti. Un passo che nella strategia comunicativa 5 stelle, punta ad accreditare agli occhi dell'opinione pubblica la percezione di una forza affidabile, a poche ore dall'ascesa della delegazione del Movimento sugli scaloni del Quirinale, che mira a rimettere insieme i cocci di una situazione politica esplosa.

Sono il dove e il quando a rivelare più di altro che quella di Di Maio è una strategia comunicativa più che una proposta politica. Una lista di pii desideri più che un modo per rimuovere l'impasse. Perché lanciare un progetto tanto ambizioso in televisione (ai microfoni della trasmissione di La7 Di Martedì) e a 12 ore dall'inizio delle consultazioni equivale, quasi matematicamente, a farsi dare il benservito. Tanto che il capogruppo del Pd al Senato, Andrea Marcucci, ha rispedito l'offerta al mittente ("Proposta irricevibile") nel giro di qualche minuto, blindando la linea dell'opposizione. Più sfumato, ma anche da Salvini è arrivato un altolà: "La coalizione che ha preso più voti è quella di centrodestra e da questa si riparte, dialogando anche con i 5 stelle ma senza subire veti o imposizioni". Ribadendo l'assoluta indisponibilità a trattare con il Pd e rinverdendo la sfida delle urne anticipate: "Siamo pronti a governare ma senza escludere di tornare a votare in mancanza di accordi chiari".

Negli ultimi giorni i segnali dello stallo a Palazzo sono diventati molteplici. Il summit tra i due leader che rivendicano per sé – pur con accenti diversi – la poltrona di Palazzo Chigi è diventato un vero e proprio giallo. Alla fine della scorsa settimana autorevoli fonti M5s lo davano per fatto: "Luigi incontrerà Salvini tra martedì e mercoledì. Bisogna solamente decidere le modalità". Una sicumera che scivolava sul muro della Lega, che non smentiva né confermava.

Passate le feste pasquali, il registro è notevolmente cambiato. Dai 5 stelle si accredita decisamente la linea del rinvio. Più voci, ad alto livello, rispondono che ci si aggiornerà alla prossima settimana. Ancora più eterei i segnali dal Carroccio: nessun incontro in agenda. Tra depistaggi e gole profonde che accreditano di un vis-à-vis già andato in scena e finito male (indicativamente all'inizio della scorsa settimana) il deciso raffreddarsi della pista dell'incontro è un ulteriore sintomo della grande difficoltà in cui versano i due partiti considerati vincitori dell'ultima tornata elettorale.

Entrambi acconciatisi a prevedere un giro di consultazioni che si chiuderà in un nulla di fatto, in attesa di capire in che direzione verterà – qualora ci sia – la moral suasion del Colle, e con la speranza che la situazioni di qui a una settimana decanti e sia foriera di quella novità che possa sbloccare una situazione in stallo da ormai qualche settimana.

La strategia d'ingaggio di Di Maio al Quirinale sembra definita. Ribadire al Capo dello stato il mandato ricevuto dagli elettori, che hanno innalzato per distacco il Movimento a prima forza politica del paese, e presentargli la volontà di costruire una maggioranza di governo intorno a una serie di punti programmatici da stilare seduti attorno a un tavolo. Proprio come hanno fatto Cdu-Csu e Spd in Germania nel recente passato. Con un punto fermo: l'indisponibilità ad accettare un pre-incarico sostanzialmente al buio, senza un accordo politico che garantisca i numeri in Aula. Lo spettro di Bersani in queste ore viene scongiurato in tutti i modi dal quartier generale stellato: perché si intravede il rischio di finire invischiato in un'operazione che, qualora fallisse, costituirebbe una pietra tombale sulle ambizioni da premier per il capo politico del Movimento. La mossa del contratto ha contribuito ad allontanare ulteriormente questa ipotesi, da molti per altro considerata già remota.

A Mattarella, con il linguaggio consono al luogo dove avverrà il faccia a faccia, Di Maio ribadirà che non transige sul suo nome come quello indicato dai 5 stelle per la premiership. Ma spiegherà altresì che non ci sarà nessuna preclusione nei confronti degli altri partiti politici, con i quali si dirà pronto a ragionare su una base di punti concordati. A meno che si chiamino Forza di nome e Italia di cognome. Il niet a Silvio Berlusconi, considerato inscindibile dalla sua creatura e indigeribile in qualunque equazione di governo pentastellata, rimane saldamente piantato nel terreno.

Dopo il sostanziale stallo nei rapporti con Salvini, viene rilanciato con decisione lo schema del doppio forno. Con il Carroccio interlocutore privilegiato, alla luce del sottile filo intessuto nell'ultimo mese, ma con un ritorno alla ribalta anche del Partito democratico. Più volte utilizzato come spauracchio da agitare sotto il naso delle camicie verdi, e ripetutamente ritenuto inaffidabile per il momento interlocutorio e di grande confusione che sta vivendo e per l'ancora ingombrante presenza di Matteo Renzi da cui si ritiene venga eterodiretto nonostante la reggenza. Ma nella stanza dei bottoni della creatura che fu di Beppe Grillo l'ipotesi Dem non è mai stata esclusa a priori. E per molti rimane ancora la preferita. "Guarda un mese fa dove stavano, e guarda dove sono oggi – spiega un uomo che con il leader è più che in confidenza – Chi può dire fra un mese dove saranno?". Giri a vuoto, lunghi periodi di decantazione. Probabilmente perché convinti, parafrasando un drammaturgo che qualcosa ne sapeva, che il tempo è un Dio benigno.

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