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Politica

L'incoscienza dei leader

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Come due giocatori di poker, al primo giro di consultazioni, i due ambiziosi runner della Terza Repubblica si apprestano a giocare una mano al buio. Senza carte da scoprire, dopo un mese in cui la loro campagna elettorale non si è arrestata. Ecco che Matteo Salvini, ragionando su come affrontare il colloquio col capo dello Stato, ha deciso, molto banalmente, di prendere tempo: senza appiccarsi alla richiesta di un incarico per sé, ma chiedendo di "partire dal centrodestra" e "poi vediamo".

E Luigi Di Maio, neanche fosse ancora in tv davanti a Giovanni Floris, riproporrà il mantra del "contratto" che di tedesco ha poco o nulla, ma assomiglia molto ad un'italica ammuina. È stato tutto il giorno con i suoi il leader pentastellato, a toccare con mano che, come si dice in gergo, si "è incartato". Perché dalla Lega non arrivano segnali di smarcamento da Berlusconi e dal Pd la proposta è stata rispedita al mittente. Prevedibile per una proposta presentata come una specie di contratto di locazione buono per qualunque inquilino, di destra o di sinistra, purché paghi l'affitto, più che come un patto politico, fondato su programmi, valori, riconoscimento degli interlocutori, scelta tra destra e sinistra. Ed è rivelatrice di questa difficoltà la scelta di non parlare col capo dello Stato di programmi, proprio perché al momento non c'è alcuna interlocuzione. All'inizio l'idea era di illustrare a Mattarella tre punti per il "contratto" – anticorruzione, reddito di cittadinanza, conflitto di interessi – poi però ha cambiato idea perché anche su quei tre punti, dopo un mese buttato, non avrebbe trovato convergenze.

La verità è che la salita al Colle è un bagno di realtà per i due ambiziosi leader, arrivati primi ma senza avere i numeri per governare. E dopo un mese in cui questa banalità è stata rimossa nelle fanfare dell'autocelebrazione del proprio successo. Perché al Quirinale, che non è un salotto tv addomesticato, dovranno spiegare, essenzialmente, tre cose: primo, il perimetro delle alleanze per garantire una maggioranza stabile e non risicata; secondo, programmi che abbiano una coerenza con le emergenze nazionali e le esigenze internazionali del paese; terzo, il profilo di chi sarà indicato a guidare il governo. Ed il rischio che la sbornia post elettorale produca un balbettio al cospetto del capo dello Stato e della sua antica sapienza costituzionale è assai concreto, perché puntigli e veti rendono complicate le risposte. Al punto che Salvini, di fronte all'imminente bagno di realtà, con i suoi non ha nascosto la difficoltà: "Ma davvero dopo il colloquio dobbiamo parlare? E che diciamo?".

È accaduto che il "fattore B" ha rotto l'idillio, perché Salvini non può e non vuole rompere con Berlusconi. Il parricidio vero è prosciugare Forza Italia tra un anno e non fare subito la stampella di Di Maio che ha il doppio dei suoi voti, prospettiva che più che a un parricidio assomiglia a un suicidio. E a un terremoto perché non lo seguirebbe neanche la parte di Forza Italia a lui più vicina: "Se sceglie la scorciatoia di andare al governo con Di Maio – gli ha fatto sapere Giovanni Toti – io non lo seguo".

Di Maio sta mostrando una smisurata ambizione, cercando stampelle per la sua ascesa al potere, senza neanche chiederle, in nome di un progetto. E questo ha interrotto la trattativa. E non è un caso che l'incontro tra i due runner, annunciato con le fanfare qualche giorno fa, al momento non è calendarizzato né sull'agenda dell'uno né sull'agenda dell'altro. E secondo fonti degne di questo nome "c'è già stato ma è andato male". Detta in modo un po' tranchant: il punto vero su cui si è arenato tutto è certo Berlusconi, ma soprattutto l'assenza di contropartite affinché Salvini possa reggere l'urto della rottura con Berlusconi. Detta ancora più tranchant: se Di Maio non rinuncia alla pretesa di andare lui a palazzo Chigi e propone un altro nome, è assai complicato che una qualunque forma di trattativa possa proseguire.

E se c'è un altro strumento di misurazione di questa paralisi è quella sorta di governo parallelo in attesa che possa nascere un governo degno di questo nome se mai accadrà. Quella commissione speciale che nel frattempo può fare qualcosa. E chissà se è un caso che Giorgia Meloni, una cresciuta a pane e politica (e massicce dosi di realismo), ha annunciato uscendo dal Colle che proprio in quella sede ha presentato una modifica della legge elettorale, per iniziare a discuterla. Non è malizioso leggere in questa mossa la consapevolezza della difficoltà e una possibile exit strategy a cui Di Maio e Salvini, nelle loro evocazioni di voto anticipato, non hanno ancora pensato, proponendo un ritorno alle urne col pasticcio attuale. Proprio la Meloni, nella conferenza stampa alla Vetrata, ha chiesto l'incarico a Salvini o a una figura del centrodestra. Perché la politica ha le sue regole e le sue responsabilità da assumersi se ci si sente vincitori. Deve essere venuto un brivido lungo la schiena al leader leghista che, invece, questa eventualità la teme, perché ci intravede il rischio di bruciarsi come accadde per Bersani. E la teme Di Maio perché, non avendo i numeri, andrebbe in contro a un fallimento che rompe la sua narrazione vincente. Il problema non si pone, perché il capo dello Stato non darà incarichi o "pre-incarichi", al buio. Perché diversamente dagli altri non considera le consultazioni una mano di poker.

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