Scegli di capire.

Gedi Smile Abbonati
Inserti
Ancora su HuffPost
Guest
Tutte le sezioni

GEDI Digital S.r.l. - Via Ernesto Lugaro 15, 10126 Torino - Partita IVA 06979891006

Cultura

"Il Pd deve andare a sentire cosa vuole il M5s"

ANSA
ANSA 

Come Michelangelo di fronte alla statua di Mosè: "Mi vien voglia di dire al Pd, colpendolo con lo scalpello sul ginocchio, perché non parli?". Per un uomo che, come lui, ha speso la vita a viaggiare per il mondo e a raccontarlo, per la televisione, per i giornali e per i lettori dei suoi libri, l'immobilità deve essere una particolare forma di mistero: "È incomprensibile il motivo per cui il Partito democratico non accetti di dialogare con il Movimento 5 stelle, anche solo per la curiosità di sapere cosa ha da dirgli in privato". Furio Colombo ha conosciuto l'America delle grandi città e quella degli immensi spazi vuoti. Si è trovato nel pieno dell'offensiva del Têt a Saigon, in Vietnam, e poi nell'Israele della guerra dei sei giorni, con un microfono in mano e il taccuino in tasca. Ha raccontato la Cina e poi ancora l'America, l'altra America, quella di Kennedy e dei capelloni, della canzone civile e delle proteste per i diritti: "Non si può rinunciare a conoscere in nome di un pregiudizio, nella vita come in politica".

Quando ancora la parola Nord non era stata rimossa dal simbolo del partito di Matteo Salvini, Colombo scrisse un libro che aveva questo titolo: Contro la Lega. Era un deputato del partito democratico di Walter Veltroni e ogni volta che prendeva la parola in aula "i leghisti urlavano contro" per i suoi interventi in difesa degli immigrati. Oggi, invece, c'è la possibilità che Luigi Di Maio conla Lega sigli un'intesa: "Sarebbe un governo pessimo, poiché congiungerebbe il peggio di entrambi i partiti (che, nel caso della Lega, coincide con tutta se stessa), escludendo il meglio Movimento 5 stelle, che dunque rimarrebbe inutilizzato".

Come entrò la politica nella sua vita?

"Ascoltando le conversazioni di mio padre con il dottor Lattes, il proprietario della libreria in cui lavorava".

Di cosa parlavano?

"Di quello che succedeva nel mondo, e di quello che succedeva in Italia. Discorsi molto diversi da quelli che ascoltavo a scuola, impregnati dall'ideologia del regime. Era come se, andando in classe, entrassi nel fascismo e, tornando a casa, ne uscissi".

Cosa non le piaceva dell'insegnamento?

"La maestra faceva togliere ai bambini più poveri le scarpe e le calze per controllare che si fossero lavati i piedi. Rimproverava: "Finché sarete sporchi, rimarrete poveri". Che potesse essere il contrario, non era contemplato".

Casa sua com'era?

"Piena di libri che mi era vietato toccare e che mi attraevano soprattutto per la rilegatura con cui mio padre li foderava. Quando nessuno poteva vedermi, mi inerpicavo sulla libreria e tiravo fuori un volume".

Ne ricorda qualcuno in particolare?

"Un'avventura a Budapest di Ferenc Kormendi, che mi cadde letteralmente addosso in una delle mie arrampicate. E mi fece scoprire il fascino del viaggio, una cosa a cui costantemente iniziai a pensare, immaginando di lanciarmi alla scoperta di ciò che c'era fuori. Niente mi emozionava di più che aspettare il treno sul quale sarei salito, sostando sul marciapiede di cemento".

Come cominciò la sua avventura?

"Il primo giorno d'università conobbi un ragazzo che sapeva molte più cose di quante un ragazzo della sua età dovesse sapere. Aveva già letto Joyce, anche se in Italia nessun lo aveva ancora tradotto. E ne parlava con una proprietà formidabile. Si chiamava Umberto Eco. E, istantaneamente, nacque con lui un sodalizio che sarebbe durato per tutta la vita".

Cosa le fece apprezzare?

"Il gusto di esplorare continuamente, correndo sempre davanti al corteo, di qualunque corteo si trattasse".

Viveste così anche la tv?

"Nel 1952, la tv era una novità assoluta, l'equivalente di ciò che il computer sarebbe stato per un ragazzo degli anni 80. Io, Eco e Gianni Vattimo andammo subito a fare il concorso Rai. E lo vincemmo".

Perché lasciò?

"Tutt'e tre scrivevamo e pensavamo di avere in mano uno strumento nuovo. Erano gli albori della tv. C'era una sola sede, a Torino. E trasmettevamo solo su una parte dell'Italia. Poi, le cose cambiarono".

Come?

"Intervistai Danilo Dolci, che era sotto processo per sovversione, e i democristiani lo considerarono un affronto alla magistratura. Mi accorsi che c'era una sorveglianza fastidiosa, che mi spinse ad accettare altro".

Cos'altro?

"Incontrai casualmente Adriano Olivetti e, dopo un'amichevole conversazione, mi offrì di andare a lavorare con lui ad Ivrea".

Ci andò?

"Immediatamente".

Perché?

"Perché ebbi l'impressione che quell'uomo pensasse il mondo, con una vastità di visione e un senso dell'avventura che la televisione non aveva".

E come andò?

"Mi chiese, per prima cosa, di andare a lavorare in fabbrica. Poi, mi affidò il compito di reclutare persone nel mondo, sopratutto umanisti, letterati, filosofi, e matematici".

Dove li cercò?

"In America e in Giappone. Ma sopratutto in America, dove, dopo l'acquisto della Underwood – l'azienda che produceva macchina per scrivere –, seguii anche l'armonizzazione di quelle fabbriche un po' sfasciate al sistema Olivetti".

Girò tanto?

"Visitai tutte le centoventotto sedi dell'azienda. C'erano fabbriche anche a Selma, Montgomery, Memphis, i luoghi in cui cominciava la sua battaglia per i diritti civili Martin Luther King, che conobbi e seguii fin da quando ad ascoltarlo c'erano poche decine di persone".

Poi, partecipò a quei grandi cortei?

"Fu lì che incontrai Joan Baez".

Ebbe una relazione con lei?

"Ho imparato da Gianni Agnelli che si parla con le donne, non delle donne".

Cosa faceste insieme?

"Fummo parte di quel grande movimento di liberazione, viaggiamo dentro e fuori dall'America, vivemmo momenti straordinari, che hanno fatto nascere un legame che dura tuttora".

È vero che ha scritto anche una sua canzone?

"Sì, Here's to you, una canzone su Sacco e Vanzetti".

Come andò?

"Giuliano Montaldo stava lavorando a un film sui due anarchici e mi chiamò per dirmi di proporre alla Baez di scrivere una canzone. Lei accettò e venne a Fregene. Stavamo in una baracca dei pescatori accanto alla casa di Ennio Flaiano e Gillo Pontecorvo. Avevo portato lì mia moglie Alice, incinta della nostra prima figlia".

Lei scrisse le parole?

"Io scrissi la maggior parte delle parole, su un'intuizione musicale della Baez, poi arrangiata da Ennio Morricone".

Perché non figura come autore?

"Perché il produttore mi offrì un milione di lire per rinunciare ai diritti e allora non ero in grado di rifiutare quella cifra".

Conobbe anche Bob Dylan?

"Sì, ma con lui non nacque un'amicizia".

Cosa accadde?

"Ero molto intimo di Mary, cantante del trio Peter, Paul and Mary. Ogni sera, andavo ad ascoltarla al Bitter End, nel Village, a New York. E, una di quelle sere, prima di andare, mi fermai in un piccolo locale lì vicino, dove avevo visto dei ragazzi in fila. Fu lì che ascoltai per la prima voltaBob Dylan. Non aveva ancora registrato nulla. Non era nessuno. Mi rimase impressa Blowin' in the wind. Mi colpìil modo, il ritmo, l'intenzione con cui la eseguiva: era qualcosa di veramente inedito".

Cosa fece?

"Corsi da Mary e le dissi: "Prenditi una pausa e vieni ad ascoltare questo tipo". Qualche settimana dopo, Peter Paul and Mary entrarono in studio e registrarono una versione di Blowin' in the wind che, nel giro di pochi giorni, balzò in cima alla classifica. E così il mondo scoprì Dylan".

Con Che Guevara come andò?

"Avevo conosciuto Raulìto Castro, il figlio di Raul, prima che Fìdel conquistasse l'Avana. E, quando si tenne la celebrazione del primo anniversario della rivoluzione, m'invitò a Cuba. Per caso, arrivai all'aeroporto nello stesso momento in cui arrivarono Jean Paul Sartre e Simone De Beauvoir. E la persona che era stata incaricata di andare ad accoglierli – e di accogliere anche me, a quel punto, visto che arrivavamo insieme – era proprio Ernesto Che Guevara".

Che cosa fece?

"Ci invitò a fare con lui una visita in città, ma Sartre e la De Beauvoir preferirono stare in albergo. Io, invece, salii di corsa sulla vecchia Bewick scoperta che guidava. Era un uomo molto allegro, con momenti di silenzio tenebroso, e tendente alla malinconia, però molto ospitale. Quando finimmo il giro, mi portò sulla terrazza dell'Hotel Hilton e mi presentò a Fidel, Raul e anche a Camillo Cianfuegos".

Lo rivide mai più?

"Lo rividi a New York, prima dell'assemblea generale dell'Onu. Tutti gli alberghi che la delegazione cubana aveva contattato si erano rifiutati di accettarli. Così, Che Guevara e gli altri, si accamparono all'ingresso del Palazzo di Vetro, cuocendo pollo alla brace e cantando inni rivoluzionari".

Lo fece anche lei?

"No, lo raccontai a un librario nero di Harlem, da cui andavo a rifornirmi. Mi disse: "Ho la soluzione". E mi portò a vedere l'hotel Teresa, un vecchio albergo anni venti, abbastanza malmesso, ma che era stato elegante. Dal soffitto gocciolava acqua, i divani erano sfondati, però c'era. Chiamai i cubani dicendo: "Avrei qualcosa per voi". E, dal Che a Fidel, si trasferirono tutti lì".

È vero che conobbe anche i Beatles?

"Ero in India per un lavoro sui discepoli di Ghandi. Alloggiavo all'Hotel Oberoi, a Nuova Delhi. E un bel giorno vidi nella hall dell'albergo Mia Farrow. Le chiesi: "Cosa ci fai qui?". Mi rispose che stava aspettando i Beatles per andare, insieme a loro, all'ashram di Maharishi Mahesh Yogi".

Accolsero anche lei?

"Quando arrivò John Lennon, gli spiegai che sarebbero potuti arrivare a Rishikesh con il treno, l'autobus e percorrendo un pezzo con la jeep, attraverso la foresta delle scimmie ladre. E che andare in elicottero, come volevano fare, era una follia: non avrebbero visto niente dell'India. Lennon capì l'obiezione. E già mi immaginavo già il gran documentario che avrei potuto realizzare. Purtroppo, però, gli altri Beatles furono irremovibili".

Li seguì lo stesso?

"Li raggiunsi dopo qualche giorno di viaggio. Fui l'unico a riprenderli dentro il santuario del Maharishi Mahesh Yogi. E non ho mai capito perché la Rai, nonostante le sollecitazioni, non abbia mai messo sul mercato quelle immagini inedite".

La Rai, però, trasmise le sue immagini di Bob Kennedy.

"Avevano ucciso Martin Luther King e i quartieri neri erano in fiamme. Dopo giorni di proteste, l'intervento della guardia nazionale e alcuni morti, nessuno riusciva a sedare la la rivolta. Così, una sera, andai all'aeroporto, affittai una macchina scoperta e guidai fin sotto l'ufficio elettorale di Bob Kennedy. Entrai e gli dissi: "Solo tu puoi sbloccare la situazione". Lui mi guardò e rispose: "Dammi un po' di tempo per riflettere".

Quanto ci mise?

"Si concentrò per un quarto d'ora, un quarto d'ora in cui mi sembrò raccolto in una preghiera. Poi si alzò e decise: "Andiamo". Lo portammo nel luogo della rivolta. Salì sulla macchina, prese il microfono e iniziò: "Hanno ucciso mio fratello. Hanno ucciso vostro padre". Fu uno dei discorsi più belli della storia politica americana. Quando finì, la folla lo portò in processione come un santo".

Cosa la attrasse, invece, di Gianni Agnelli?

"Avevamo in comune le stesse amicizie nel mondo liberal americano, da Jackie Kennedy ad Arthur Schlesinger. E poi condividevamo un gradissimo interesse per l'arte. Non era uno di quei borghesi a cui dicono: "Compra questo quadro". Aveva una concezione dell'arte di natura veramente intellettuale".

Berlusconi l'ha mai incontrato?

"Volle conoscermi e, una sera, m'invitò a casa sua, a Milano. Capì immediatamente che non si sarebbe mai potuto fidare di me. Tanto di cappello a un uomo così intelligente".

Allora perché lo combatté così duramente?

"Una volta abbandonata l'ideologia, credevo che la sinistra avrebbe dovuto trovare almeno una passione, la passione per il rispetto dei diritti, per la protezione del lavoro, per la difesa dei più deboli".

I girotondi avevano questo spirito?

"Per me, erano un'applicazione dell'insegnamento di Martin Luther King: nessuna violenza, ma nemmeno un piccolo cedimento sui principi".

Cederebbero, i 5 stelle, se si accordassero con la Lega?

"Metterebbero in comune con la Lega la loro parte peggiore, come la caccia agli immigrati, costitutiva della Lega e manifestata in alcune occasioni anche dal Movimento. E metterebbero da parte, invece, tutte le buone qualità che avrebbero potuto esprimere avvicinandosi ad altri soggetti".

Pensa al Pd?

"Il Partito democratico è un partito stanco e confuso, forse troppo debole per reggere una scossa come quella che gli darebbe l'avvicinamento al Movimento 5 stelle".

Dunque, condivide l'analisi dei vertici del Pd?

"No, al contrario: credo che sia un dovere, per il Pd, parlare con il Movimento 5 stelle, che è un partito bizzarro, eterodiretto, con delle strane manie di controllo, ma non in mano a delinquenti".

Se il Pd rischia di implodere, perché dovrebbe rischiare?

"Perché, nella storia, può sempre arrivare il momento giusto, anche se il momento giusto sembra essere passato".

I commenti dei lettori
Suggerisci una correzione