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Politica

Luigi Di Maio scommette sul Pd, tra i mugugni della base e il timore del "trappolone" di Renzi

Getty Images
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È una sorta di all inn quello che Luigi Di Maio piazza sul tavolo di chi si gioca il montepremi del governo: "Per me qualsiasi discorso con la Lega si chiude qui". Quando esce dall'incontro con Roberto Fico, esploratore incaricato dal Quirinale di sondare l'ipotesi di un governo tra M5s e Pd, il capo politico del Movimento usa parole nette. La sala stampa, prospiciente la sala della Lupa dove è avvenuto il faccia a faccia, è gravida di storia. Tra quelle quattro mura i deputati socialisti protestarono nel 1924 contro il governo fascista. E sotto la medesima volta affrescata i delegati della Corte di Cassazione proclamarono l'esito del referendum del 1946 che trasformò la monarchia italiana in Repubblica.

Il passaggio di un martedì d'aprile quasi qualunque della storia italica impallidisce di fronte a tali monumenti di storia patria. Eppure segna una svolta non indifferente sulla strada che conduce al prossimo esecutivo. Di Maio, sollecitato dal reggente del Pd Maurizio Martina qualche ora prima, si posiziona dietro i microfoni e da un podio istituzionale chiude definitivamente il forno con il Carroccio. L'atmosfera è scarica, l'afflusso di telecamere e giornalisti scarno rispetto ai pienoni dei giorni scorsi. Perché il leader M5s ha incontrato il compagno di tante battaglie Fico, non ci si aspettano novità rilevanti.

Ma Di Maio più che riferire del colloquio parla al Pd. Che poco dopo l'ora di pranzo aveva aperto a una possibilità di dialogo, sia pur dopo essere passato per una Direzione che definisse i se, i come e i cosa di un'eventuale trattativa. Indicando il programma presentato in campagna elettorale come ineludibile punto di partenza di qualsiasi dialogo, e i sigilli sulla porta di un esecutivo gialloverde come precondizione essenziale.

Ottenendo un via libera sulla seconda questione, quella qualificante, si sono aperte le danze. I 5 stelle non nascondono di puntare forte su un governo politico che pur comprenda l'appoggio del tanto vituperato Matteo Renzi e dei suoi. È forse l'ultima possibilità di partecipare a un governo politico. Probabilmente a un governo tout court. Il capo politico stellato lo mette in chiaro: "Voglio chiarire una cosa: non esiste per noi alcuna fiducia a governi tecnici, istituzionali, di scopo, di garanzia, del Presidente o altro. Quindi se fallisce anche questo tentativo, il paese dovrà affrontare nuove elezioni". Un suo fedelissimo spiega anche che "in quel caso si riproporrebbe una maggioranza tra noi e il Pd o tra noi e il centrodestra, ma con un esecutivo che ci vedrebbe fuori. Ma siamo matti?".

La strada è impervia. Per le oggettive condizioni politiche. Un dialogo con il Pd non è mai veramente decollato. E nonostante le concrete aperture di Martina la macchina fatica a carburare. Con il timore che Matteo Renzi butti acqua nel serbatoio per farla sbiellare. Una paura che lo stato maggiore grillino ha ben chiara: "In questa fase ci sono poche alternative. Ma chi ci dice che l'ex premier non mandi avanti il segretario reggente, ci faccia credere che ci siano margini d'intesa, e che poi invece non saboti tutto?".

In questa fase a prevalere è tuttavia l'ottimismo della volontà. Insieme alla convinzione che sia proprio il Colle a esercitare quella moral suasion sui Dem che potrebbe essere il discrimine tra un successo e un fallimento. Certo, Di Maio ha ribadito che non svilirà i "valori e le più grandi battaglie" del Movimento. Elencandoli: "Costi della politica, ambiente, reddito di cittadinanza, lotta al business dell'immigrazione, pensioni e aiuti alle imprese, lotta alla corruzione". Facendo capire che sull'eventuale programma ci sarà molto da discutere. Glissando, fra l'altro, sul nodo della sua premiership. Argomento per ora prematuro da affrontare, ma che se le cose procedessero nella direzione sperata si porrà con forza.

C'è un altro terreno che rende il campo di gioco scivolosissimo. Ed è fotografato da una base e da un gruppo parlamentare in gran subbuglio. Perché il Pd è stato per cinque anni considerato il nemico da combattere e smontare con tutti i mezzi. E si fatica molto a digerire una partnership con il nemico di sempre. Di Maio ne è consapevole, e ha messo in campo una serie di contromisure. Per giovedì è stata convocata un'assemblea, nella quale il capo politico darà conto ai parlamentari delle mosse degli ultimi giorni e tratteggerà un orizzonte degli eventi. E ha lanciato un altro segnale preciso: "Sottoporremo anche ai nostri iscritti sulla piattaforma Rosseau" il contratto di governo. È la prima volta che nei cinquanta giorni della crisi viene tirata in ballo la rete. Non un elemento nostalgico. Nemmeno un modo per rispondere alle critiche su verticismo e accentramento. Ma un segnale di coinvolgimento lanciato alla base, tentando di calmierare, almeno per il momento, il disagio percepito. "Condivido anche io le perplessità – dice chi ha sentito Di Maio nelle ultime ore – ma che facciamo, ci arrocchiamo nel nostro castello e buttiamo via 11 milioni di voti? La nostra gente deve capire che l'alternativa è l'irrilevanza".

La via per un governo giallorosso è stretta e accidentata. Si dovrà camminare in equilibrio tra due voragini, rischiando di scivolare al minimo refolo di vento. E la Lega? Sentite cosa dice uno dei massimi vertici 5 stelle: "Certo che con loro è chiusa; in queste ore è chiusa, in questi giorni è chiusa. Ma tu hai mai visto una cosa definitivamente chiusa in politica?".

"It ain't over 'til it's over", amava ripetere il grande allenatore di baseball Yogi Berra. "Non è finita finché non è finita".

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