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Politica

Ancora niente governo: al limite della crisi istituzionale

Getty Images
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Come in un drammatico gioco dell'oca, in cui si torna sempre al punto di partenza. Anzi, con meno chances rispetto all'inizio, perché questi sessanta giorni di crisi hanno già consumato tutte le opzioni e bruciato, in un clima dissolutorio di pre-ordalia elettorale, gli auspicati sussulti di "responsabilità" che il tempo avrebbe dovuto portare "nell'interesse generale".

Così al Quirinale ci si appresta a registrare l'esito annunciato di una direzione che certificherà ciò che è stato chiaro sin dalla famosa intervista di Renzi a Fabio Fazio. E cioè non solo la fine di ogni dialogo, ma la ripresa di una ostilità tra Pd e Cinque stelle già rivolta ad eccitare le piazze e a riempire le urne. E se è possibile che già nella giornata di venerdì si svolgerà un giro di consultazioni, la sensazione è che, stavolta, la margherita delle opzioni del presidente ha assai meno petali rispetto all'inizio. I punti fermi, negli stessi ragionamenti dei suoi consiglieri, riguardano ciò che il presidente di sicuro "non farà", più che ciò che potrebbe fare. A partire da un governo di minoranza, che consenta al centrodestra di andare in Aula a raccattare voti dei "responsabili", convertiti alla religione della governabilità pur di non dover affrontare il rischio di una nuova campagna elettorale. La mossa rappresenterebbe un azzardo: immaginate un governo – guidato da Salvini, Giorgetti o chiunque sia – che giura con i propri ministri, poi si presenta in Aula e non incassa la fiducia. Resterebbe in carica per gli affari correnti portando il paese al voto: ne trarrebbe un vantaggio competitivo rispetto agli altri schieramenti, in un clima avvelenato nel paese.

Né sono percorribili gli schemi franati nelle due esplorazioni, quella della Casellati prima, di Fico poi. Che senso avrebbe dare a questo punto un pre-incarico a Salvini, nel momento in cui lo stesso leader della Lega continua a dichiarare che si muove nello stesso perimetro (il dialogo coi Cinque stelle) su cui è franata la presidente del Senato? Nessuno. E che senso avrebbe un pre-incarico a Di Maio adesso che si è chiusa ogni interlocuzione sia a destra sia a sinistra col leader pentastellato che, evidentemente, punta a un ritorno al voto in tempi rapidi? Egualmente nessuno.

Altra ipotesi che rimbalza in questi giorni al Quirinale, in ragionamenti mai usciti dalla sfera dell'informalità, riguarda lo schema caro a Gianni Letta, principe della diplomazia berlusconiana. Prevede che la parte renziana del Pd, in nome di un dialogo sulle riforme o quantomeno sulla legge elettorale, possa aiutare la nascita di un governo di centrodestra, purché non guidato da Salvini. Ipotesi che cozza non solo con l'assenza di dichiarazioni pubbliche, ma con la stessa logica. Perché uno scenario del genere presuppone la rottura in due del Pd e non si capisce dove sarebbe il vantaggio di Renzi nel rompere il suo partito per andare in soccorso del centrodestra in nome di una legge elettorale che gli servirebbe a ben poco.

La verità – sembra retorico dirlo, ma è così – è che siamo dentro una crisi senza precedenti. In cui due giri di consultazioni e due tentativi falliti guidati dai presidenti dei due rami del Parlamento sono stati passaggi tutt'altro che indolori dal punto di vista sistemico. Più che fasi "maieutiche" per aiutare i partiti a maturare nuove consapevolezze, hanno disvelato una cruda realtà. E cioè che, per la prima volta, un governo del presidente – lo si chiami di "tregua", di "garanzia", "istituzionale", ma la sostanza non cambia – non avrebbe i numeri in Parlamento, dato questo di cui al Colle sono consapevoli, in un quadro di crescente preoccupazione. Perché al momento non c'è un Parlamento pronto ad accogliere un nome indicato dal capo dello Stato, in un rigurgito, si sarebbe detto una volta, di "responsabilità nazionale". Anzi, al momento un governo del genere rischierebbe di essere figlio di nessuno. Salvini e Di Maio hanno già messo agli atti la loro contrarietà. E senza Lega e Cinque Stelle, mancano i numeri.

Ecco il punto drammatico. E il salto di qualità. Non è all'orizzonte solo una crisi di "governabilità", ma una inedita crisi "istituzionale", in cui i partiti incapaci di indicare uno sbocco possibile e imprigionati in una sorta di cupio dissolvi trascinano le istituzioni, persino la principale come la presidenza della Repubblica, dentro le proprie contraddizioni. Perché è chiaro che il voto entro l'estate non è contemplabile e la finestra è considerata chiusa al Quirinale. Ma il "piano b" del Colle è fragile: è appunto un altro capitolo della crisi, non la fuoriuscita da essa. Il "piano b" è un governo "per la manovra" spedito dal presidente alle Camere, con l'obiettivo di evitare – o almeno provarci - l'esercizio provvisorio in autunno. Se non ottiene la fiducia, in autunno invece porta il paese al voto, restando in carica per gli affari correnti. Di questo si ragiona al Quirinale, alla vigilia del possibile terzo giro di consultazioni: della scelta "solitaria" che sarà chiamato a compiere il capo dello Stato; della prima legislatura, di fatto, non avviata della storia repubblicana (non è mai successo che durasse meno di un paio d'anni); e di un governo, nato su impulso del capo dello Stato, per la prima volta di minoranza nel Parlamento. Più che uno sbocco, è un fallimento in cui, suo malgrado, viene coinvolta la presidenza della Repubblica che, per la prima volta, non riesce a fare ciò che si è sempre fatto, ovvero un governo, anche ricorrendo alla fantasia politica più ardita: "balneare", di "decantazione", "di tregua", "di scopo". Dopo ci sono le urne, con la stessa legge elettorale, il paese in esercizio provvisorio, il possibile aumento dell'Iva, e un gorgo che risucchia verso l'ignoto.

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