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Politica

Italia giallo-verde, fuga dalle missioni. Alla Farnesina preoccupazioni per la futura presenza italiana in Libano, Niger e Afghanistan

Ali Hashisho / Reuters
Ali Hashisho / Reuters 

Italia giallo-verde, fuga dalle missioni. Uno spettro si aggira per le ansiose stanze della Farnesina: lo spettro del disimpegno dai fronti caldi sui cui l'Italia ha costruito un suo profilo internazionale di Paese affidabile all'interno del sistema di alleanze, la Nato, e negli impegni assunti in ambito Onu. Fuga dalle missioni. In particolare, fuga dal Libano, dall'Afghanistan, dal Niger. Nel "contratto" di governo Di Maio-Salvini non c'è un esplicito riferimento al tema, ma le reiterate esternazioni di dirigenti pentastellati e di quelli leghisti non sembrano lasciar dubbi in proposito. Proposito di fuga, non immediata, certo, ma alquanto sicura.

È opportuno "rivalutare la presenza dei contingenti italiani nelle singole missioni internazionali geopoliticamente e geograficamente, e non solo, distanti dall'interesse nazionale italiano", recita il paragrafo del "contratto di governo" ultima versione. Con i 5 Stelle al governo, "pensiamo che il contingente italiano non debba più restare in Afghanistan", aveva esplicitato Luigi Di Maio, illustrando (6 febbraio 2018) le direttive che guideranno la politica estera del Movimento 5 Stelle, alla Link Campus University, aggiungendo che la missione a Kabul "sta esponendo i nostri soldati a inutili rischi". Un annuncio che non farà fare i salti di gioia a Washington, che, se ha preannunciato un disimpegno in Iraq, non ha alcuna intenzione di mollare la presa sull'Afghanistan. Da rivedere, secondo il leader Cinque Stelle, anche e soprattutto la nuova missione italiana in Niger. Approvata in "una fase debole del nostro governo", quando invece richiedeva "un'ampia legittimazione". "La Francia è lì da tempo e la nostra ci sembra una missione di supporto ai francesi" ha attaccato Di Maio, promettendo di voler "rivedere i termini e le regole di ingaggio della missione".

Un passo indietro nel tempo: 6 giugno 2013. Resoconta efficacemente Pietro Salvatori per HP: Mai più militari italiani all'estero. Dopo la richiesta del ritiro del contingente italiano dall'Afghanistan, è una mozione sulla situazione del Mali a dare il là ai deputati del Movimento 5 stelle per alzare l'asticella sulle tematiche di politica estera. Non solo Kabul, dunque, ma tutti gli scenari in cui l'esercito si trova impegnato in missioni internazionali deve essere sgombrato dal grigioverde delle nostre divise. Manlio Di Stefano, capogruppo stellato in commissione Esteri alla Camera, è categorico: "Chiediamo con forza che i nostri soldati non escano più dal territorio del nostro paese se non per missioni di assistenza a popolazioni in difficoltà". E ancora: "Qualsiasi intervento militare che ha visto impegnati i nostri contingenti è stato fallimentare" aggiunge Alessandro di Battista, che della Commissione è vicepresidente. "Se si pensa a posteriori agli interventi in Kosovo, in Iraq, in Afghanistan si comprende come abbiamo solo buttato soldi e vite umane. Per questo vogliamo i nostri militari non sparino mai più un colpo".

Accenti diversi, ma stessa lingua, se dai pentastellati si passa ai leghisti. "È necessaria una revisione generale dell'impostazione delle missioni internazionali, a cominciare dalla nostra presenza in Libano, dove spendiamo soldi e non contiamo nulla sul piano diplomatico". Così si era espresso in Aula l'allora vicepresidente dei deputati della Lega Nord, Gianluca Pini. Era il 4 settembre 2017. "Riteniamo sia meglio pensare al ritiro e magari potenziare gli interventi in Libia, che almeno possono portare al nostro Paese vantaggi immediati, attenuando la pressione dei clandestini che premono sulle nostre coste e usando quei soldi per contrastare le mafie che sfruttano la tratta di esseri umani. Noi non siamo pregiudizialmente contrari all'impiego dello strumento militare, tuttavia deve essere utile al perseguimento di obiettivi percepiti utili dall'opinione pubblica. Per questi motivi La Lega Nord ha votato contro la conversione in legge del decreto sul rifinanziamento delle missioni internazionali. Per il governo la gestione di questo provvedimento è stato un totale fallimento sul piano dell'immagine e del metodo". Nei toto-ministri che impazzano in ogni dove, Roberto Calderoli è sempre presente. Ecco cosa pensava il papabile ministro della presenza italiana nelle missioni all'estero: ritirare il contingente italiano dal Libano. E' la proposta, narrano le cronache di quei giorni, che Roberto Calderoli ha intenzione di portare sul tavolo del Consiglio dei ministri (nel governo Berlusconi) per contribuire a risolvere la gestione dell'emergenza immigrati. "La ricetta della Lega Nord per affrontare il problema immigrazione conseguente ai sovvertimenti in corso nel Paesi del Maghreb – spiega infatti il ministro per la Semplificazione Normativa – si può sintetizzare in tre punti: aiutiamoli a casa loro, svuotiamo la vasca e chiudiamo un rubinetto che, purtroppo, ancora sgocciola". Ma "per fare questo occorrono mezzi e risorse e proprio per reperirli proporrò al prossimo Consiglio dei ministri il ritiro delle nostre truppe dal Libano. Siamo là dal 2006, siamo, inspiegabilmente, il contingente più numeroso e ancora oggi". Era il 10 aprile 2011.

A quanto dato sapere, l'esponente leghista non ha cambiato idea. Di certo, non l'ha fatto Matteo Salvini. "Ho chiesto su quanti sono i militari in giro per il mondo nelle 25, 30 missioni all'estero e fra un po' c'è bisogno di una missione di pace in Italia: così il leader della Lega risponde così ad un ascoltatore che a Radio Padania ha chiesto di utilizzare i nostri militari impegnati nelle missioni di pace all'estero per difendere le nostre coste da possibili minacce provenienti dalla Libia, definendo la sua una "bella proposta".#Salvini: riportare in Italia i nostri militari all'estero, la priorità è difendere i nostri confini #portaporta: così twitta Salvini, il 26 giugno 2015. Concetto che il leader leghista aveva sostenuto ai microfoni di SkyTg24 l'11 febbraio 2015: "Bisogna ridiscutere le missioni italiane e sospendere le operazioni con Triton", afferma Salvini illustrando la sua "ricetta libica". Certo, sono posizioni pre-governative e c'è chi spera che una volta entrati nella stanza dei bottoni, pentastellati e leghisti, "sorvegliati" dal Presidente della Repubblica, che è anche a capo del Consiglio supremo di Difesa, cambino idea o quanto meno ammorbidiscano le loro posizioni che, così come fin qui espresse, risulterebbero alquanto indigeste a Washington come a Bruxelles (intesa sia come Unione europea che come Nato). "Si pensava o sperava così anche per Donald Trump – annota con HP un diplomatico di lungo corso alla Farnesina – una cosa, si diceva e scriveva, è il Trump candidato, altra cosa sarà il Trump presidente. La realtà ha dimostrato che questa speranza era solo un'illusione". Dietro le riflessioni dei nostri diplomatici non c'è alcuna velleità militarista, ma una consapevolezza maturata nel tempo e sui dossier più caldi nelle aree di crisi: l'Italia conta se s'impegna in risorse finanziarie e anche in uomini per rafforzare le missioni all'estera sotto egida Nato o Onu.

E' il caso del Libano, ritenuto da più parti il fiore all'occhiello delle nostre missioni all'estero. Di Unifil 2 l'Italia ha tuttora il comando, e questo, sottolineano alla Farnesina e al ministero della Difesa, è il portato del riconoscimento di un impegno, quantitativo e qualitativo, che il nostro Paese ha dato per stabilizzare la linea di confine tra Israele e Libano subito dopo la guerra dell'estate 2006. Racconta Guido Olimpio sul Corriere della Sera in un recente, bel reportage dal Libano": l clima internazionale è caldo, dunque i nostri ufficiali abbassano la temperatura. Ogni mese organizzano un vertice a tre a Naqoura, con libanesi e israeliani. Le parti non si parlano direttamente, i tavoli non devono toccarsi, ogni delegazione volta le spalle al paese avversario però i protagonisti non rinunciano al dialogo. Fondamentale per prevenire incidenti. Come è importante l'atteggiamento verso i civili. Il generale Sganga ha incontrato decine di sindaci, avviato – come i suoi predecessori – programmi in aiuto alla popolazione: l'Italia ha stanziato oltre un milione di dollari. Scelta che segue un percorso storico. Gli italiani sono presenti con l'Unifil dal 1979 quando arrivò il primo nucleo di elicotteristi, task force ancora attiva con alcuni velivoli e protagonista di interventi delicati. Non solo. Dopo la strage nei campi palestinesi di Sabra e Chatila nell'82, i soldati italiani furono mandati a Beirut con compiti di pace e scelsero una strategia aperta verso l'esterno, non muscolosa o arrogante, che si rivelò vincente..". E' la storia dell'Italia in Medio Oriente. Cancellarla, disinvestendo, ritirandoci, sarebbe un suicidio politico. Questo è ciò che, a taccuini chiusi, rimarcano alla Farnesina.

Missioni, ma non solo. Perché c'è un altro dossier esplosivo che il nascente governo dovrà affrontare. Subito. E' il dossier-Libia. Si tratta di scegliere. Prima scelta da operare: mantenere-rafforzare il legame con il governo di Fayez al-Sarraj, l'uomo di Tripoli su cui i precedenti governi a guida Pd, Renzi e Gentiloni, avevano puntato per la stabilizzazione del Paese nordafricano? Su questo, Di Maio è rimasto sul generico. "Ci faremo promotori di una conferenza di pace sulla Libia a Roma, che metta intorno al tavolo tutti gli attori e veda protagonista l'Italia, tenendo presente che l'Eni è lì dal 1959 e la Libia ha un interesse geostrategico per noi rilevante", aveva sostenuto il leader pentastellato nel suo discorso alla Link Campus University. Già un passo in avanti rispetto a quando Di Maio aveva affidato le sorti della Libia a Maduro, motivandolo così in una intervista a Paolo Mastrolilli de La Stampa, che aveva seguito il leader Cinque Stelle nella sua missione negli Usa (5 maggio 2017). "I Paesi occidentali che hanno interessi petroliferi nel Paese non sono credibili per mettere insieme le tribù e le varie comunità locali. Noi proponiamo una conferenza di pace che coinvolga i sindaci e le tribù, mediata da Paesi senza interessi, tipo quelli sudamericani del gruppo Alba (Alleanza bolivariana di cui fanno parte Cuba e Venezuela ndr). Poi dobbiamo smettere di affidarci a Sarraj, come persona che possa risolvere la questione. Non è un capo legittimato dalle tribù o dai libici. Dobbiamo mettere intorno al tavolo chi conta, non inventarci un soggetto che purtroppo al massimo controlla un tratto di costa". Quanto a Salvini, così dichiarava, incontrando i giornalisti a Montecitorio, l'1 agosto scorso, in occasione del voto del Parlamento sulla missione navale in Libia: "Loro (Renzi e il suo governo, ndr) sono tre anni che chiacchierano, noi siamo pronti a sostenere qualunque intervento che blocchi l'invasione: un'occupazione militare da parte degli immigrati che non scappano dalle guerre, un tentativo di sostituzione etnica organizzato e finanziato. Quindi che si sveglino, certo non sono due navi che risolvono il problema, vanno protetti i confini, occorre un blocco navale e affondare le navi degli scafisti e occorre sequestrate le navi delle ong che si rifiutano di avere polizia e controlli a bordo".

La conclusione a cui giungono oggi le nostre feluche è: "Speriamo in Mattarella". E nella determinazione del Capo dello Stato a dire l'ultima parola su chi dovrebbe insediarsi alla Farnesina. Un nome gradito è quello di Giampiero Massolo. Nessuno si attende da lui miracoli, ma vale la riflessione della nostra fonte: "Meglio un usato sicuro che un dilettante improvvisato ministro".

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