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Esteri

Francesco e la roulette “russa” del Medio Oriente

NurPhoto via Getty Images
NurPhoto via Getty Images 

Quando il limes uccide, impassibile, "impassabile", uomini e idee. I morti che da una decade (2008 – 2018) s'infrangono e scompaiono seriali come onde al confine tra Gaza e Eretz Israel cancellano a colpi di spugna, sulla lavagna degli storici, l'assunto teorizzato da Francesco nel novembre 2013, all'esordio del suo mandato. Muovendo dal presupposto che il futuro non si misuri a metri quadri. E avviare processi valga più, in definitiva, che occupare gli spazi, sulla distanza e nella sostanza delle relazioni internazionali.

Un concetto che posiziona centralmente, originalmente il pontefice argentino nella hit e cornice del pensiero universale, ma lo situa marginalmente, al momento, sul sentiero impervio della diplomazia mediorientale.

Condizione ratificata e accentuata dal diniego di Kirill, che ad onta del richiamo di San Nicola diserterà il summit ecumenico di luglio a Bari, promosso da Bergoglio per coagulare, ergo guidare, la riscossa unitaria delle chiese cristiane. A riprova del fatto che sul bivio tra il Vaticano e il Cremlino i patriarchi moscoviti non esitano ad allearsi, e allinearsi, con quest'ultimo.

Lo spazio ha ucciso il tempo e lo ha rinchiuso nel sepolcro, risuscitando e ponendo in auge, per contro, la Realpolitik. Ammesso che fosse mai defunta.

Settant'anni non sono serviti a suturare il vulnus atavico del 1948, ma ne certificano di converso lo status cronico e ne rilanciano il contagio epidemico.

Calendario politico e liturgico si divaricano: il primo ha raggiunto il traguardo genetliaco del 14 maggio e aggiunto ai luoghi - simbolo di Gerusalemme l'altare profano dell'ambasciata Usa, fortemente voluto da Trump e insanguinato dal sacrificio umano di cento vittime predestinate, ampiamente prevedibili alla vigilia. Il secondo è fermo al 30 marzo, Venerdì Santo e inizio della mattanza sui fianchi e ai valichi di Gaza Strip: una "striscia" ininterrotta di marce funebri che ha listato, smentito e scandito a lutto i cinquanta giorni del tempo pasquale.

Così, mentre le luci della Città Santa brillavano sulla sede diplomatica, perno edilizio dell'asse preferenziale con White House, piantato come un chiodo nell'immaginario collettivo del mondo arabo, il cenacolo del Papa è rimasto al buio, tradito dal miraggio di una Pentecoste mancata.

"Siamo parti, medi, elamiti e abitanti della Mesopotamia ... com'è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua?". Diversamente da quanto accadde ai discepoli, che riuscirono a farsi intendere da qualunque destinatario, l'odierno Medio Oriente non si lascia ricondurre all'ovile geopolitico di Francesco, eretto sul "quadrilatero" di antinomie della Evangelii Gaudium: "Il tempo è superiore allo spazio, l'unità è superiore al conflitto, la realtà è superiore all'idea, il tutto è superiore alla parte".

Un poker d'assi che sul tavolo verde, rivelatore, della Valle del Giordano - dove i Vicari di Cristo vengono chiamati prima o poi a scoprire le carte - cede il passo alla scala reale delle grandi "monarchie", laiche o ieratiche, dinastiche o repubblicane: Arabia sunnita e Persia sciita. Neo "imperi" russo e turco. Stelle e Strisce e Stella di Davide.

Yalta è risorta e ha cambiato residenza. Si è trasferita a Oriente in luogo dell'Est: dalla Crimea dei potenti alla Galilea delle genti. Pochi gradi longitudinali, sulla curva scoscesa del planisfero. Parecchi di più, sul termometro in ascesa del rischio bellico.

Da una guerra fredda, refrigerata dalle brezze atlantiche, a una pace calda, infiammabile, assisa sui pozzi di petrolio e perennemente sul punto di esplodere.

Se infatti le polveri, nelle santabarbare di Riad e Teheran, rimangono bagnate almeno per ora, benignamente separate dalle acque del Golfo, la sabbia brucia e il fuoco arde, invece, ai piedi e ai lati d'Israele, disteso tra le "micce" di Gaza e Golan.

Con la conseguenza che lo stato ebraico, nel settantesimo della sua istituzione risulta insieme paradossalmente, verosimilmente, invincibile ma vulnerabile. Al top della proiezione politica e al fondo della fascinazione mediatica. Al minimo del soft e al massimo dell'hard-power, ribaltando lo scenario di partenza di Ben Gurion e della repubblica dei kibbutz, capace di attirare su di sé la simpatia – e il rimorso - del mondo intero.

L'Otto e il Novecento sono tornati, alla stregua dei giganti mitologici, nello sforzo di scongiurare il peggio. Immobilizzando la macchina del negoziato, quali ganasce bloccaruota, e sterilizzandone altresì le pulsioni, dalla desistenza con l'Iran all'indipendenza della Palestina. Imprigionando il futuro nei recinti del passato, tra zone d'influenza e rinascite imperiali, rovesci d'alleanza e reset dell'orizzonte.

Una roulette "russa" che lo zar Vladimir Putin, novello Lawrence, spregiudicata e impomatata new entry del Risiko mesopotamico, appare persuaso di gestire, al termine della cavalcata che lo ha visto insediarsi a Damasco vittorioso, esattamente un secolo dopo: al centro di un complicato, e ad alto rischio, sistema di check and balance, che individua un contrappeso dinamico, non meno disinvolto e dirompente, nel giovane "sceriffo" della Mecca, Mohammed bin Salman.

Se i predecessori Wojtyla e Ratzinger avevano atteso la fase più avanzata o matura del pontificato per recitare "il classico" del viaggio in Terra Santa, Bergoglio ha scelto all'opposto di uscire subito allo scoperto, alla ribalta del teatro più esigente: maggio 2014 a 14 mesi appena dalla elezione al soglio. Pronto ad andare in scena senza prove. O a improvvisare, nel caso. Istinto versus calcolo. Come aveva del resto fatto a settembre di un anno prima in fulminea, estemporanea sequenza: scrivendo a Putin, salvando Assad, stoppando Obama.

"E se fosse necessario aprire un buco sul tetto, che la nostra immaginazione creativa ci porti a questo, a trovare e fare strade di incontro". Buco sul tetto: metafora che assimila il processo di pace al paralitico del Vangelo e ammette implicitamente l'impossibilità di approcciarlo da terra, nel puzzle di fedi, feudi e faide che frammentano e fermentano, segmentano e sgomentano.

In nessun luogo al mondo, al pari della Città Santa, lo scontro spazio - tempo si concretizza e parcellizza con altrettanta scolastica, plastica, persino pleonastica evidenza, nei quartieri e sui muri. Blasfemo e sublime. Un braccio di ferro infinito e infinitesimale, millenario e millimetrico, che non ha consentito al Papa di ascendere in Sion e discernere una location, neutrale, per essere mediatore tra le parti.

Così, marcato a uomo da Netanyahu, che chiudeva sistematicamente gli spazi, Francesco ha protratto il match ai supplementari. Lasciando a casa il premier israeliano e "convocando" a Roma i due capi di stato, Shimon Peres e Abu Mazen.

Un azzardo che ha trasformato il colle vaticano, per un giorno, nel Monte Tabor di una trasfigurazione impossibile: visualizzando e vaporizzando il sogno dei due stati nella luce, intensa e tersa, di un tramonto di giugno.

Estremo tentativo di restare protagonista, conservandovi un ruolo di leadership, tra Nazareth e Gaza, Giudea e Samaria: primato che alla Chiesa compete per anagrafe terrena e divina epigrafe, ma in cui oggi tuttavia risulta scavalcata, oltre che a Washington, nella "seconda" e "terza Roma", di Mosca e Istanbul, sotto la guida energica e volitiva di Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdoğan.

Tre su quattro dei principi sanciti e iscritti nell'Evangelii Gaudium si sono rivoltati al loro mentore, in guisa di angeli ribelli. Soltanto uno, il più pragmatico e meno dogmatico, "la realtà è superiore all'idea", è rimasto fedele a Bergoglio, rieditando il prospetto, e spettro, di un Medio Oriente avvinto, più che convinto. Incatenato al giogo di una pace forzosa. Un format bismarckiano, a ben guardare, retto da equilibrismi, al posto di equilibri, tra due blocchi: Russia,Turchia e Iran da un lato e dall'altro Usa, Israele, Arabia Saudita. Una scacchiera, più che frontiera, di assicurazioni e contro - assicurazioni cross - over dove Putin, alleato degli ayatollah, garantisce a Netanyhau, in veste di "onesto mediatore", la zona cuscinetto smilitarizzata del Golan. L'unica che importi davvero agli occhi delle cancellerie, a motivo degli "incontri ravvicinati" tra Tsahal e i Pasdaran.

Mentre sulla terra di Gaza, dove il racconto biblico ambientò il dramma, emblematico, di Dalila e Sansone, il tempo contrae i muscoli e cova il suo riscatto, costretto dalla catena dello spazio e nutrito dalla disperazione di un popolo. Nell'eterna e irrisolta tensione, nonché tenzone, tra limes e chronos, architettura diplomatica e congiuntura storica.

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