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Cultura

Giovanna Calvenzi: "Negli anni '70-'80 la fotografia informava, oggi mette in mostra le vite sui social"

Facebook/Giovanna Calvenzi
Facebook/Giovanna Calvenzi 

Era l'estate del 1970. A bordo di una Fiat 124, con il portabagagli zeppo di taniche vuote e di attrezzi da campeggio, c'erano due studenti. Uno si sarebbe dovuto laureare da lì a poco in architettura (lo fece però tre anni dopo), l'altra in lettere. Erano fidanzati. Si chiamavano Gabriele Basilico e Giovanna Calvenzi. Pare il primo fotogramma di un film, mentre è l'inizio di una vita insieme all'insegna dell'avventura e della fotografia, che lega i due in un amore lungo una vita.

"Puntavamo a Samarcanda, arrivammo a Kabul. Ogni chilometro, di quei ventimila che percorremmo in macchina, ci preparano a quello che avremmo visto e ci trasformarono. Avevamo un sacco di guide, ma gli incontri con le persone, scegliere dove mettere la tenda per dormire, incontrare gli abitanti dei vari luoghi fu la cosa più importante. Fu un'esperienza umana, che penso non sia più tanto ripetibile. Quello era un modo di viaggiare tipico degli anni Settanta, adesso è tutto più rischioso". Mi parla così Giovanna Calvenzi, una frangetta che le copre la fronte e quell'accento distante, ma squisitamente cortese, che i milanesi sanno perfettamente esercitare. Prima di iniziare l'intervista però mi ammonisce: "Parliamo di tutto, ma non mi faccia mai generalizzare. Quello che dico è sempre e solo il mio punto di vista" aggiunge.

Il suo punto di vista privilegiato di donna per eccellenza della fotografia italiana, che a lungo ha insegnato a Milano e dunque ha collaborato come photo-editor per diversi periodici italiani, declinando la sua conoscenza in svariati volumi fra cui Italia. Ritratto di un paese in sessant'anni di fotografia illustrata (Contrasto, 2008).

Lei ha lavorato con i più grandi. Ma cominciamo dall'inizio. Il suo esordio è stato segnato dalla collaborazione con Federico Patellani, Cesare Colombo e Toni Nicolini. Che cosa le hanno insegnato?

Mi hanno insegnato un lavoro che non pensavo di cercare, e di volere. Pensavo di restare all'università e di occuparmi di letteratura contemporanea, ma avevo bisogno di lavorare, così risposi a un'inserzione. Andai da Patellani, e lì si aprì davanti a me un mondo che non conoscevo. Mentre io facevo l'università il mio fidanzato, Gabriele Basilico, si iniziava ad avvicinare alla fotografia, e lì siamo rimasti.

Allora com'era la fotografia?

Era fatta per noi soprattutto dalle persone. Avevamo conosciuto fotografi importanti dei quali sapevamo molto poco. Ma vedevamo come lavoravano loro e i loro amici. Era una fotografia legata molto all'uomo, una deriva della fotografia umanista degli anni Cinquanta e Sessanta. Ma tutto era riletto con la vitalità del Sessantotto.

Quella vitalità come la toccò?

Io stessa cominciai a fare fotografie pur sapendo di non essere capace. Lo facevo per il movimento: seguivo le manifestazioni, davo le foto a Lotta Continua, partecipavo agli eventi. La fotografia era per me uno strumento di aggregazione prima, e poi di comunicazione.

Mi diceva di Lotta Continua.

Io ero di Lotta Continua. Mi ricordo moltissimo di quell'epoca, anche se non sono nostalgica. Tutti i giorni ci preoccupavamo di quello che succedeva nelle scuole, nelle fabbriche, nelle case. Lo studio, per me che andavo all'Università, era nei ritagli di tempo.

Se dovesse recuperare un frammento di quel passato?

Recupererei il ricordo oggi intraducibile che corrisponde all'adesione totale a un'ideale. L'ideale di fare qualcosa, magari anche di sbagliato, per cambiare il mondo.

Perché dice di sbagliato?

Le cose non sono state vere come avremmo voluto. C'era molta ingenuità. Ma a diciannove anni devi avere in testa l'idea di cambiare il mondo.

Secondo lei lo credono anche i diciannovenni di oggi?

È un mondo diverso. Ma non sono capace di dire quale fosse meglio. Si vive nel periodo in cui si vive, cercando di fare al meglio.

Questo periodo com'è?

Io vivo a Milano, dove mi trovo felicemente bene. Questo è un periodo milanesianamente buono. Per quanto riguarda l'Italia preferirei non parlarne.

Perché?

Perché è spaventoso! Sono spaventata non solo per la qualità politica e umana delle persone che stanno iniziando a governarci, ma perché non esiste una reazione possibile a tanta bassezza.

Davvero pensa che non sia possibile rintracciare una risposta?

Non trovo nessun modo, e non trovo intorno a me nulla di adatto. Ci sono espressioni di malessere, certo, ma io non vedo movimenti.

La fotografia può aiutare oggi a comprendere ciò che stiamo attraversando?

Credo di sì. Questa funziona c'è ancora. Ed è tutta sulle spalle dei fotografi. Hanno il compito di rivelare, di continuare a farci pensare.

Lei ha dedicato un libro a Lisetta Carmi, Le cinque vite di Lisetta Carmi (Bruno Mondadori, 2013), dove svela la vita di questa straordinaria donna, oggi 94 enne, alquanto dimenticata. Quali sono le donne fotografe di oggi?

Lisetta lavorava quasi in solitudine. Ma da donna forte quale è, non ha vissuto con nessun fastidio la sua solitudine. A Milano c'è la Casa delle donne cui hanno aderito tutte le fotografe milanesi, che fanno cose interessanti, ma che spesso incidono sulla realtà in minima parte. Ma nomi, maschili o femminili, non ne faccio.

Lisetta Carmi ritrasse i transessuali italiani. Il suo libro fece gridare allo scandalo. Le librerie lo tenevano nascosto, si vergognavano ad esporlo. Che cosa scandalizza oggi?

Lei ce l'ha una risposta?

No, altrimenti non lo avrei chiesto a lei.

Oggi viviamo in una società molto più permissiva dal punto di vista del costume. Ci sono stati libri sulla prostituzione, sulla droga, libri molto più scandalosi di quelli di Lisetta, ma si vendono, vincono dei premi, la cultura è andata molto avanti.

Se tutto è cambiato, il ruolo della fotografia come si è evoluto?

Credo che la fotografia per moltissimi anni abbia avuto come terreno unico di confronto l'editoria periodica. Ma l'editoria su carta è in un momento abbastanza drammatico. Vivere di fotografia è praticamente impossibile con magazine italiani, e quella online fatica a trovare un suo livello garantito. La fotografia così è diventata qualcos'altro.

Che cosa?

È diventata non solo attenta ai fatti del mondo, ma molto personale. Non parlo solo delle fotografie legate al mercato dell'arte, ma anche quelle dei fotogiornalisti. Il punto di vista del fotografo che ci racconta qualcosa è divenuto centrale. Ormai nessuno pubblica storie di fotografia. Le storie hanno al massimo tre pagine, se guarda IoDonna, D, Espresso, Panorama... I giornali non credono più all'informazione visiva.

Sembra una contraddizione in un mondo dominato da Facebook e Instagram.

Non è una contradizione, ma una conseguenza. La stampa italiana in generale da un certo punto della storia è stata affidata a dei manager che, in un momento di crisi, hanno preferito scegliere il risparmio all'investimento e alla ricerca. Guardi, le faccio una confessione.

Prego.

Ho iniziato a lavorare nel 1985 ad Amica. Per fare la copertina avevo 5 milioni di lire. Nel giornale dove lavoro adesso per una copertina si pagano al massimo 400 euro. In oltre trent'anni, i prezzi sono diventati stracciati. Non si vive più facendo questo mestiere con i giornali. Il mercato della fotografia aveva dei costi e delle professionalità, oggi quelle cose non ci sono più. Pensi alle agenzie fotogiornalistiche. Esistono quelle di Stato. Fine. Il mondo è cambiato, e in questo cambiamento è difficile immaginare cosa accadrà, e come la situazione potrà essere migliorata.

Cosa si cercava un tempo nelle fotografie?

Negli anni Settanta e Ottanta la fotografia doveva informare. C'era una fiducia ingenua che con la fotografia si potesse cambiare qualcosa. La fotografia aveva una strada che viaggiava parallela a quella della televisione, ma che consentiva degli approfondimenti. Si basava sul desiderio di raccontare, mettere in guardia, condividere.

E oggi, su che cosa si basa?

Difficile dirlo. La fotografia dei social è una fotografia di condivisione, strumentale a mostrare un pezzo della propria vita. Ma anche i social hanno un merito.

Quale?

Attirare l'attenzione su un'arte che è sempre stata considerata la sorella povera. Ormai tutti fanno fotografie, ed è una cosa positiva.

Lo pensa davvero?

Un po' per volta la gente inizierà a capire di più. E questa, a lungo andare, forse si dimostrerà come una pre-alfabetizzazione collettiva alla fotografia.

Nel 2010 ha collaborato a una mostra sulla condizione femminile: 46 scatti raccontavano la donna dagli anni Cinquanta ad oggi. Chi ha ritratto meglio le donne?

Non lo so. Ho sempre pensato che non ci fosse una fotografia fatta da uomini e una da donne, ma degli argomenti che funzionano meglio per gli uni, o per le altre. Non è un caso che nel fotogiornalismo le donne siano molto meno rispetto al lavoro artistico.

Perché questa disparità?

È il sistema esistenziale. Quando hai la famiglia, delle cose che ti complicano la vita, è difficile prendere e partire, magari per stare un mese in Iran. Ma per fare del fotogiornalismo importante devi essere libero. Le donne, e posso parlare per me, sono state sempre legate a situazioni famigliari, e mettere il mestiere prima di tutto è un concetto che appartiene a poche. E poi – ridendo – forse siamo meno portate alla guerra, e più alla creazione.

Lei si sentiva femminista?

Non lo so. Io sono stata estremamente fortunata. Non mi ha mai molestata nessuno. Non ho mai avuto problemi a trovare un lavoro. Sono sempre stata pagata come un uomo, senza nessuna discriminazione. Non ho mai dovuto rivendicare nulla, se non la sorellanza alle mie compagne di strada che avevano dei problemi. Ho partecipato alle lotte che si facevano allora, ma era una cosa ideologica. Non era un mio bisogno intimo.

Ritorniamo a quel viaggio in Iran, che è diventato uno splendido volume. All'epoca eravate fidanzati, ma con Gabriele Basilico, scomparso cinque anni fa, lei ha passato tutta la vita.

Non ho ricordi. Gabriele è sempre qui.

Cosa le ha insegnato?

Forse, sarebbe meglio dire: cosa abbiamo imparato insieme? (Ride) La sua cosa più bella era la serenità sul lavoro. Una dote naturale. Non aveva nessun turbamento. Ma era turbatissimo quando doveva fare una fattura. E poi mi ha insegnato che...

Che?

Che uno nasce come nasce. Gabriele è sempre stato quello che voleva lui. È questo nella vita è un regalo meraviglioso.

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