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Cultura

"Il populismo è una costante della tradizione italiana"

Vittoriano Rastelli via Getty Images
Vittoriano Rastelli via Getty Images 

Al Consiglio europeo, un risultato l'Italia l'ha ottenuto: "Ha posto il problema dei migranti e ha obbligato l'Europa ad ascoltarla, diventando la protagonista del vertice. È una piccola vittoria. Una vittoria non definitiva. Non definita. Però, una vittoria". Potrebbe sembrare che Giordano Bruno Guerri sia d'accordo con il Matteo Salvini che dice "alzare la voce paga", ma, in realtà, appena sente solo l'espressione si ritrae: "Non mi appartiene questo linguaggio feroce. E mi commuove vedere quelle persone in mare, mi sconvolge vederle morire. Occorre prima di tutto salvarli, mentre si cerca una soluzione. Tuttavia, dare a Salvini del criminale e assassino è irreale. Dal punto di vista umanitario, neanche Marco Minniti aveva tutte le carte in regola: è vero che è riuscito a ridurre gli sbarchi, ma l'ha fatto creando dei lager in Libia, cioè adottando la politica dell''occhio non vede, cuore non duole'. Pochi, però, hanno gridato allo scandalo. Credo che sulla questione dei migranti fosse necessario, come ha fatto il presidente del consiglio Conte, chiedere una revisione sia delle regole comuni, sia dell'atteggiamento degli altri paesi europei. Una vecchia regola della diplomazia dice che 'nessun trattato accettato senza essere discusso è un buon trattato'. Stavolta, l'Italia ha rispettato questo principio".

Scrittore, storico, studioso e custode dell'eredità di Gabriele d'Annunzio, manager culturale, le categorie tradizionali della politica sono incapaci di prendere nelle loro maglie tutto Giordano Bruno Guerri: "Mi irrito quando mi associano alla destra – conservatrice o neo-populista – senza troppe letture alle spalle, un po' istintiva e rozza. In realtà, sono un libertario progressista, ma nemmeno nella sinistra mi sento a casa. Ho trovato un compromesso tra il mio liberismo economico e il desiderio di giustizia sociale votando per i Radicali. Ma la verità è che su di me pesa lo stigma di aver studiato il fascismo, come se interessarsi al fascismo significhi condividerne la politica. Ecco un problema culturale di questo paese". Contro la forza delle mitologie e dei pregiudizi, Guerri ha scritto Antistoria degli italiani. Da Romolo a Grillo, da poco in libreria per La nave di Teseo, un libro nel quale Arlecchino è presentato come la sintesi dell'italiano che corre da un padrone all'altro, ma sempre ritenendosi più furbo di tutti: "Il populismo è una costante della tradizione italiana. Non è un'invenzione di Beppe Grillo, né di Matteo Salvini. C'era una componente populista nella retorica di Benito Mussolini, nel paternalismo democristiano e anche in Silvio Berlusconi. La novità di Grillo e Salvini sta nell'aver saputo aggiornare questa costante della storia patria al tempo della rete".

Anche d'Annunzio era populista?

"D'Annunzio era un libertario, un superomista, un anti democratico, ma non è mai stato fascista. Negli oltre ventimila oggetti custoditi al Vittoriale degli Italiani, di cui presiedo la fondazione, non c'è nemmeno un fascio, un busto di Mussolini, niente nell'architettura degli edifici che richiami al regime. L'Italia dovrebbe riscoprire D'Annunzio, liberandolo dalla falsa fama di Giovanni Battista del fascismo".

Perché non lo si èancora fatto?

"Perché, per anni, la cultura italiana ha sofferto di idee ricevute e ridistribuite tali e quali, come se il sapere dovesse essere offerto al pubblico nel modo in cui i sacerdoti offrono l'ostia al fedele, invitandolo a inginocchiarsi, senza fare troppe domande, senza mettere in discussione troppe cose".

Lei ha cercato di cambiare questo modo?

"Con i libri, prima di tutto, con la libertà di pensiero e di comportamento, fuori dagli schemi".

E in televisione?

"Più di vent'anni fa, mi chiamò il direttore di Rai Educational, Antonio Spinosa, dicendomi: "Giordano, vorrei che tu conducessi un programma". Mi propose di fare una trasmissione culturale. Sebbene mi conoscesse solo come storico. Io non ero mai stato davanti a una telecamera. Ma feci un provino e, dopo pochissime prove, ero in onda con Italia mia benché".

Come andò?

"Prima della puntata d'esordio, facevo quasi ogni notte lo stesso sogno: rimanevo di fronte alla telecamera in studio e, quando la lucina rossa si accendeva, cominciavo a parlare senza riuscire a formulare nessuna frase di senso compiuto. In preda all'angoscia, scappavo dallo studio, e poi mi svegliavo di soprassalto".

Avvenne davvero?

"In realtà, quando partimmo, feci semplicemente me stesso, e le cose funzionarono bene. Andavo in onda senza la giacca e la cravatta, m'infilavo dei calzettoni di lana che aveva cucito mia madre e facevo domande agli ospiti accoccolandomi accanto a loro, magari dopo essermi arrampicato su una colonna di televisori. Allora, i programmi culturali erano molto istituzionali. Il conduttore doveva stare seduto sullo sgabello, prestare molto attenzione al movimento del suo sopracciglio. Dimostrai che si poteva fare cultura anche senza l'abito della convenzione".

Perché ne aveva avuto cosìpaura?

"Mi tornò in mente quella volta che, a sei anni, mi chiesero di leggere una poesia dall'altare della chiesa. La conoscevo a memoria. Sapevo recitarla. L'avevo provata moltissime volte. Eppure, arrivai davanti al microfono e non riuscii ad aprire bocca. Rimasi in silenzio per un po'. Poi, scoppiai a piangere, finché non mi portarono via".

Si è mai dato una spiegazione di quel blocco?

"Credo abbia a che fare con mio padre, un uomo che ha balbettato fino all'età di quarant'anni. Lavorava come segantino in una fabbrica di marmi. Era un brutto lavoro, che ci collocava dentro una classe sociale infima. Mi sentivo inadeguato, come probabilmente si sentiva lui, che smise di balbettare quando riuscì ad aprire finalmente un'osteria".

Con la difficoltà di suo padre, la parola, lei ha costruito la sua vita.

"Non so se sia stata una reazione, ci vorrebbe un'analista per indagarlo".

Come iniziò?

"Mi mantenevo all'università facendo il correttore di bozze. Poi, dopo la laurea, Feltrinelli pubblicò la mia tesi su Giuseppe Bottai, un fascista critico, il cui racconto cambiò l'atteggiamento della storiografia sulla cultura del regime".

Poi si è dedicato a Curzio Malaparte.

"Andai a intervistare Indro Montanelli, che lo detestava, e mi parlò di lui assai malvolentieri. Malaparte era riuscito a soffiargli il posto di corrispondente di guerra dal fronte finlandese e Indro non glielo perdonò mai. Ogni volta che poteva, mi rimproverava quel mio libro. Nonostante ciò, mi chiamò a scrivere al Giornale".

Com'era?

"Gli invidiavo l'enorme capacità di scrittura. L'ho visto con i miei occhi infilare un foglio bianco nella sua Lettera 22, scrivere in pochi minuti l'editoriale e mandarlo in stampa senza rileggerlo. Diceva: "Per me, scrivere è come pisciare". Ma non era solo la scrittura. In tanti, scrivono bene. Lui aveva una visione, l'ironia, l'acutezza".

Lei che direttore è stato?

"Quando ero a l'Indipendente, pubblicai in prima pagina un verso di John Giorno, un poeta della beat generation. Diceva: "Nessun cazzo è duro come la vita". Si sparse la voce che mi avevano fatto fuori per quello. In realtà, il titolo che mi valse la direzione era un altro: "Fini sbaglia tutto su stato e religione". Aveva aperto al mondo musulmano. Una delle cose contro cui mi sono battuto per tutta la vita, i dogmi della religione. Nel caso dell'islam, ancora più bigotti".

Lei che c'entra con la beat generation?

"Sono un sessantottino che non ha fatto il sessantotto. Ho sempre trovato grottesco l'appello a Mao Tse Tung e agli altri santi marxisti. A tredici anni, era il '63, sono fuggito per la prima volta di casa. Non riuscii a fare il liceo senza essere rimandato tutti gli anni, fui beatnik, provos e hippy, abbandonai gli studi chissà quante volte girando l'Europa per mesi nel sacco a pelo, chiesi l'elemosina di cento lire ai passanti della metropolitana di piazza Cordusio. Feci, insomma, tutte le esperienze di ribellismo e di anticonformismo dell'epoca".

A cosa le servirono?

Fu un addestramento alla vita e al pensiero indipendente. Per esempio, quando andai in televisione, a cambiare il modo di presentarsi al pubblico, in uno stile che in tv era stato sempre represso".

Come visse la rivoluzione sessuale?

"Negli anni Settanta, e fino a quando non arrivò l'incubo dell'Aids, il sesso non era considerato una libertà, era un dovere: dire di no era una forma di scortesia, una forma maleducazione. Da timido, mi sentii a mio agio".

Chissà se D'Annunzio, libertino dei primi del Novecento, avrebbe apprezzato questo conformismo.

"Credo che D'Annunzio si possa considerare un sessantottino ante litteram, però assai più audace di noi; basti pensare alla costituzione che dette a Fiume, ma anche conquistare una donna allora era come scalare l'Everest, figuriamoci conquistarne a decine".

Oggi?

"Sedurre è comunque un'attività faticosa, devi sforzarti sempre di essere attraente, di pronunciare frasi intelligenti, senza concedere spazio alla noia".

Ha smesso?

"Da dodici anni vivo nella più spontanea, assoluta e gioiosa fedeltà. E non per noia".

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