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Esteri

La War room di Mike Pompeo, manovra a tenaglia di Trump con l'Iran

Kevin Lamarque / Reuters
Kevin Lamarque / Reuters 

Mike Pompeo vara la "War room". Su mandato del commander in chief: Donald Trump. Il nome, meno minaccioso, è "Iran Action Group" e la sua funzione ufficiale è quella di coordinare e mettere in atto le misure sanzionatorie definite dal presidente Usa dopo l'uscita unilaterale di Washington dall'accordo sul nucleare con Teheran. Il segretario di Stato americano ha annunciato la creazione dell'IAG in una conferenza stampa nella quale ha indicato in Brian Hook, direttore della politica di pianificazione del Dipartimento di Stato, come capo del team. "Il nuovo Iran Action Group si concentrerà nell'implementare la strategia di pressione sull'Iran", spiega Hook, che sarà prossimamente nominato da Trump "Special Representative for Iran". Sina Tooosi, analista a Washington del National Iranian American Council (NIAC) non ha dubbi: "Il compito di Hook – dice ad al-Jazeera – è quello di definire i piani preventivi per una guerra con l'Iran".

Per sostenere questa convinzione, i dirigenti del NIAC rimarcano che il programma annunciato da Pompeo sembra riprodurre lo schema applicato per la guerra in Iraq del 2003 dall'allora presidente Usa George Bush, quando, come atto preliminare al piano d'azione militare contro Saddam Hussein. Ebbene, i caratteri della "War game" ideata dall'ex direttore della Cia, assomigliano come gocce d'acqua a quelli made in Bush 2003. In questa sorta di war in progress, l'amministrazione Trump starebbe preparando sanzioni contro tutti i paesi che importano petrolio dall'Iran. E' quanto riporta il Wall Street Journal, affermando che tra i Paesi a rischio sanzioni si mettono in evidenza la Cina, l'India e la Corea del Sud. Queste due ultime hanno già iniziato a ridurre le importazioni, mentre la Cina ha affermato ripetutamente di non avere intenzione di rispettare la volontà degli Usa.

Di conseguenza, secondo il WSJ, sanzioni contro la Cina potrebbero scattare a seguito della scadenza dell'ultimatum, nel mese di novembre, quando diverranno attive le sanzioni riguardanti le attività petrolifere della repubblica islamica: l'impatto di questo nuovo attacco contro l'Iran potrebbe addirittura essere più pesante rispetto al precedente. C'è una giornata fatidica, cerchiata in rosso: 5 novembre 2018: nel dettaglio, documenta un report di Commodities trading, nella precedente tornata sanzionatoria per evitare di incappare in sanzioni, le società petrolifere in affari con l'Iran dovevano ridurre le importazioni del greggio di Teheran in una percentuale pari al 20% ogni sei mesi, ma in questa occasione un'azione di questo tipo non sarà affatto sufficiente, soprattutto se consideriamo che ad essere interessate dai provvedimenti di Washington saranno anche le esportazioni di condensati. Poco importa – sottolinea il report - che i governi europei si stiano opponendo ad una fine degli accordi con l'Iran, a dettare le regole del gioco sono le compagnie petrolifere internazionali, che null'altro sono se non i veri acquirenti del greggio di Teheran; il rischio che tali aziende corrono nel continuare ad intrattenere rapporti di affari con l'Iran è elevato e la minaccia di essere esclusi dal mercato statunitense e dal relativo sistema bancario è più che sufficiente a condizionare il comportamento degli operatori di settore: le aziende interromperanno gli acquisti, le compagnie navali potrebbero rifiutarsi di trasportare il petrolio iraniano e le società assicurative molto difficilmente saranno disposte a coprire i relativi rischi.

Anche questo, è la guerra di Pompeo. Molto più che l'esecutore sul fronte iraniano dell'"America first". Mike Pompeo, l'ex direttore della Cia che The Donald ha fortemente voluto come segretario di Stato ha messo tutto il suo peso politico, e non solo, sulle due scelte strategiche operate da The Donald in Medio Oriente: l'uscita unilaterale degli Stati Uniti dall'accordo sul nucleare con Teheran, e lo spostamento dell'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme. Pompeo ha studiato attentamente tutte le mosse del presidente russo Vladimir Putin in Medio Oriente, giungendo ad una conclusione: il leader del Cremlino vince perché sceglie. Sceglie chi sostenere, Bashar al-Assad in Siria ad esempio, e poi tira avanti su questa linea, senza tentennamenti. E' lo schema che Pompeo ha voluto riportare nel campo americano. E allora la scelta degli alleati sul quadrante mediorientale: Israele e Arabia Saudita. E il nemico contro cui consolidare le alleanze: l'Iran.

A Teheran, ha ribadito a più riprese il segretario di Stato, "si chiede di rispettare le norme globali e di non minacciare il mondo con le sue attività nucleari". "L'accordo" del 2015 "ha messo il mondo in pericolo per le sue lacune" scandisce il segretario di Stato americano, parlando dell'accordo nucleare da cui gli Stati Uniti sono usciti. "Il meccanismo per controllare e verificare era semplicemente troppo debole. L'Iran ha mentito per anni sul suo programma nucleare. Anche oggi, il regime continua a mentire", afferma Pompeo. "Ricordate: l'Iran ha portato avanti la propria marcia in Medio Oriente mentre l'accordo era in vigore", aggiunge il numero 1 della diplomazia a stelle e strisce in un altro passaggi del discorso di presentazione del suo programma. "Durante l'accordo, l'Iran ha continuato a trattenere ostaggi americani", dice ancora, prima di sottolineare che, negli anni in cui l'intesa era in vigore, "l'Iran ha continuato ad essere il principale sponsor del terrorismo" e a Teheran sono riconducibili "operazioni con omicidi sotto copertura nel cuore dell'Europa". "E' per tutto questo - dice rivolgendosi al popolo iraniano - che volete sia ricordato il vostro Paese?".

Ed è proprio quest'ultimo passaggio che dà conto della filosofia interventista del segretario di Stato Usa: l'obiettivo vero, finale è il cambio di regime a Teheran. Le sanzioni ne sono lo strumento, il nucleare la presunta "pistola fumante". Il numero uno della diplomazia americana Pompeo ha chiesto all'Iran, oltre che di rivelare all'Aiea, l'Agenzia internazionale per il controllo dell'energia atomica, tutte le informazioni relative al suo programma nucleare e di abbandonarlo per sempre, di fermare tutti gli aiuti a gruppi terroristici nella regione come Hezbollah, Hamas e la Jihad palestinese. Di rispettare la sovranità dell'Iraq, e di abbandonare il supporto agli Houthi nello Yemen. Di ritirarsi dalla Siria, di fermare la sua collaborazione con i Talebani in Afghanistan e al Qaeda. Di cessare le minacce ai vicini Arabia Saudita e Israele.

La distensione, almeno in Medio Oriente, non è una priorità per Pompeo. O meglio, la distensione, nell'ottica dell'America first", per essere contemplata deve venire a seguito di un ridimensionamento sostanziale della presenza iraniana nella regione; ridimensionamento che, nello schema trumpiano, è un passaggio, ma non la meta. Perché la "meta" resta l'abbattimento del regime degli ayatollah. Il numero uno della diplomazia americana ha stilato una lista di 12 richieste a Teheran, tra cui il ritiro delle proprie truppe dalla Siria. Il Pompeo-pensiero, rafforza e attualizza le riflessioni di Pierre Haski, analista di punta del settimanale francese Obs, in un articolo su Internazionale: "Di fatto, una parte degli Stati Uniti non ha mai rinunciato a premere per un cambiamento di regime in Iran, in particolare nel corpo dei marines, che vive nella memoria dell'attentato di Beirut, e tra le fila dei neoconservatori, che hanno oggi il vento in poppa.

Paradossalmente questi si rivelano essere, di fatto, gli alleati del clan dei falchi vicini alla Guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei, e dei comandanti del corpo dei Guardiani della rivoluzione e dei servizi di sicurezza della Repubblica islamica, che non hanno mai veramente digerito i negoziati per l'accordo nucleare con il "grande Satana" da parte del governo moderato guidato dal presidente Hassan Rohani...I falchi di Teheran, come quelli di Washington, non avevano niente da guadagnare dalla distensione auspicata tanto da Barack Obama quanto da Hassan Rohani. La scommessa dei due uomini si fondava sull'idea che il miglioramento della situazione economica cui aspira la popolazione iraniana, in particolare le classi medie urbane, le meno soggette all'influenza religiosa, avrebbe portano a una definitiva distensione tra i due paesi". Ma la distensione, almeno in Medio Oriente, non è una priorità per Pompeo. O meglio, la distensione, nell'ottica dell'America first", per essere contemplata deve venire a seguito di un ridimensionamento sostanziale della presenza iraniana in Medio Oriente; ridimensionamento che, nello schema trumpiano, è un passaggio ma non la meta. Perché la "meta" resta, per l'appunto, l'abbattimento del regime degli ayatollah.

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