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Cultura

Dogman, L'Oscar del popolo

Dogman
Dogman 

La faccina da "popolo" di Marcello Fonte, protagonista di "Dogman", il film di Matteo Garrone, dove si racconta, sia pure trasfigurata, la vicenda non meno "popolare" del delitto del "Canaro" della Magliana, rappresenterà il cinema italiano agli Oscar, come possibile miglior film in lingua straniera. L'annuncio è previsto per gennaio, la cerimonia di consegna degli Oscar si terrà il 24 febbraio. C'è, insomma, ancora tempo, e tuttavia la percezione quasi ontologica dell'immaginario italiano è da subito interamente racchiusa nella proposta di un "attore preso dalla strada", come già era accaduto con Lamberto Maggiorani per "Ladri di biciclette". Il fortunato Fonte ha già conquistato la Palma d'oro a Cannes, tuttavia la nostra riflessione corre, e per fortuna, oltre lo specifico cinematografico.

"Dogman" comunque ci rappresenterà degnamente, un immediato manifesto visivo del populismo nazionale, fin dal suo promo sembra infatti un'istantanea perfetta dell'Italia, anzi, di ciò che noi risultiamo nelle pupille dell'osservatore medio straniero, non solo americano, cioè la prosecuzione post-miracolo economico degli straccioni sdentati che Roberto Rossellini accosta ad Anna Magnani in "Il miracolo", del pensionato di "Umberto D." di De Sica, e così via fino ad "Accattone", se non direttamente al corpo sfigurato di Pier Paolo Pasolini sullo sterrato dell'Idroscalo di Ostia, poliziotti sguaiati, ragazzini e "coatti" a curiosare intorno al cadavere, la finzione neorealistica che si fa realtà, fino a segnare nella sua forma tragica e insieme feticistica la narrazione gay globale, il suo dépliant criminale e insieme paradossalmente glamour, come altrove è accaduto con Fassbinder.

Immagini come segnaposto, e perfino segnapunti, della nostra narrazione nazionale percepite come assolute e autentiche, posto che noi, gli Italiani, non possiamo essere nient'altro che "popolo", addetto ai servizi nel formicaio planetario, e non certo in senso edificante, cioè risorgimentale e gramsciano, ma neppure in pieno possesso di un senso di coscienza civile, come vorrebbero i versi di Piero Calamandrei, in risposta al nazista Kesselring: "Popolo serrato intorno al monumento che si chiama ora e sempre Resistenza". Piuttosto popolo alla rinfusa, già "zona grigia" riscontrata da Primo Levi, popolo di curiosi davanti a un rifornitore di benzina "Esso" in piazzale Loreto a Milano nell'aprile '45, a contemplare il cadavere a testa in giù di Mussolini, e ancora popolo aperto a ogni possibilità, perfino la più assurda, in attesa, occhi al cielo, come ne "Il giudizio universale" sempre di De Sica, se non proprio della voce di tuono di Dio, comunque, dai, di un acquazzone, o magari semplice finanziamento cosiddetto "a pioggia", popolo del sogno assistenzialistico, qualunquismo familista che si affida all'"onorevole". Non è forse un caso che, escludendo la mitologia milanese affluente degli stilisti, nella percezione esterna siamo pizzaioli o piuttosto idraulici come "Super Mario Bros", ideale santo patrono d'ogni videogioco. O simulacri melodici del camionista, come Eros Ramazzotti, il nostro Springsteen. Comunque, popolo, declinabile in senso populista.

Intervista a Marcello Fonte, il "canaro" di Dogman

Il medesimo popolo che decenni fa ha apprezzato la canottiera di Umberto Bossi, laboratorio umano vivente perfetto per testare una nuova plebe politico-folcloristica, versione ulteriore di quella che abbandonò a se stesso il rivoltoso proto-socialista Carlo Pisacane come già aveva fatto qualche anno prima con il duca Gennaro Serra di Cassano, illuminista, decapitato con somma soddisfazione dei sanfedisti.

Da qui alla faccina di Marcello Fonte ci sono davvero pochi passi ... Ora che ci penso, noi Italiani siamo stati anche Marcello Mastroianni, creatura della piccolissima borghesia del quartiere romano di San Giovanni; come Gesù, figlio di falegname, e ma anche, nel tempo del successo, compagno di Catherine Deneuve e di Faye Dunaway, e tuttavia sappiamo pure che Marcello nostro si commuoveva soprattutto al pensiero persistentemente popolare delle polpette cucinate da sua madre, lo racconta proprio quest'ultima in un filmato fatto proprio nella casa di via Sanremo, il barattolo autarchico a sportellino del sale lì sul muro della cucina, Marcello come popolo mai cancellato neppure dal riverbero della statuetta degli Oscar, popolo dal volto in questo caso umano, lontano dalla Magliana del "Canaro", il quartiere edificato dai costruttori comunisti Marchini, lo stesso che nei giorni di piena del Tevere vedeva l'acqua risalire dai servizi igienici; e al giovane cronista de "l'Unità" che denunciava la vergogna, l'allora direttore Alfredo Reichlin così disse: "Hai toccato il partito romano, hai toccato la Resistenza!"

Da qui alle felpe, anzi, alla gestualità, alla prossemica stessa di Matteo Salvini, poco importa se espressa in un dibattito in diretta o sui social, il passo è minimo, tutti gesti che servono a costruire consenso in una ambito umano rionale antropologicamente testato a partire dal ripagante qualunquismo, bisogno di semplificazione autoritaria prossima all'orbace e al ritorno della "cimice" nell'occhiello, dove appare valida ancora una sentenza, anzi, un "Tondo Doni" di Flaiano: "Il fascismo conviene agli italiani perché è nella loro natura e racchiude le loro aspirazioni, esalta i loro odi, rassicura la loro inferiorità".

Dunque Salvini e i suoi alleati e ancora la sua claque raffigurano plasticamente la prosecuzione del succedaneo degradato di un neorealismo infinito, altrimenti non si comprenderebbe il riscontro pubblico, dunque elettorale, di una forza politica votata, almeno nel suo Lato A, al disprezzo scanzonato verso i "meridionali" - "Forza Etna" o anche "Senti che puzza scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani"- la stessa che innalza ora il rosario che rimanda alla tristezza compunta delle cucine economiche, ai pomeriggi nei refettori delle parrocchie, agli stessi ospedali militari e ai manicomi che lo stesso sogna di riaprire, e ancora l'implicita criminalizzazione dello straniero, del migrante, del "nero", del "clandestino", dove la povertà diventa colpa, e ancora addirittura l'ipotesi pedagogica del ritorno della leva militare obbligatoria perché "formativa" (sic), spettro che si porta dietro, non tanto Gianni Morandi e Laura Efrikian dei "musicarelli" degli anni '60, piuttosto fumetti come "Il Tromba", "Zora la Vampira", "Sukia" o "Attualità Proibita", materiali concepiti, sia detto sempre gramscianamente, "non dal popolo ma per il popolo", come già nella ripartizione delle origini del canto popolare, ovviamente al popolo degli onanisti, cui la tradizione goliardica dedica versi che riassumono il senso di sudditanza propria del populismo che vive di delega e riconosce su tutto il principio d'autorità, cominciando dal suo modello base, il "questurino": "O popolo bruto, su snuda il banano non vedi che giunge l'amato sovrano?" Basterebbero queste modalità per fissare l'Italia in cima al palmarès del risorto populismo.

Vorrà pure dire qualcosa l'attivismo debordante dell'attuale ministro degli Interni? Cominciando dai messaggi in stile agenzia immobiliare, altra icona dell'ideologia populista, lanciati come razzi katiuscia in occasione del decreto sicurezza. Avreste mai immaginato Mario Scelba, Virginio Rognoni o Minniti mostrarsi come Tecnocasa o Roberto Carlino?

Forse – la nostra è un'ipotesi pop, intendiamoci – solo quando l'artista di successo e riscontro planetario Jeff Koons volle tutta per sé Ilona Staller, fino a sposarla e farci un figlio, l'Italia, terra di accoglienza e residenza dell'extracomunitaria Cicciolina, proprio lei che nell'immaginario Usa, o comunque del Village newyorkese, sfavillava tra le meraviglie dello Stivale - Torre di Pisa, Colosseo, Venezia e infine proprio Ilona, china, amorevole, rappresentazione di una infine raggiunta modernità – dette, sempre l'Italia, la sensazione d'essere altro dei suoi soliti stracci, da Accattone, da Alvaro Vitali e anche da Fabrizio Bracconeri. Pura illusione, è bastato riaprire gli occhi per trovarsi davanti Marcello Fonte, succedaneo, lo si è detto, di Lamberto Maggiorani, ma anche Salvini che prova a darsi tono spettrale da "Twin Peaks" sulla copertina di "TIME", peccato che l'effetto sia invece tra Gallarate e Frosinone, giusto per citare un'antica, popolare, battuta della preistoria radiofonica.

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