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Esteri

Siria, Erdogan calza l'elmetto e sfida gli Usa: pronti all'offensiva finale contro i "terroristi curdi"

ASSOCIATED PRESS
ASSOCIATED PRESS 

Tra il "Sultano di Ankara" e il "Principe di Riyadh", Donald Trump ha scelto di sostenere quest'ultimo, nonostante il coinvolgimento, acclarato anche dalla Cia, di Mohammed bin Salman nella brutale uccisione del giornalista e dissidente saudita Jamal Khashoggi. "Quello che abbiamo saputo dalle registrazioni è che persone vicine al principe ereditario" saudita Mohammed bin Salman "hanno svolto un ruolo attivo" nell'omicidio di Khashoggi, insiste il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, tornando a puntare il dito contro la cerchia ristretta di Mbs e l'ostruzionismo di Riyadh nelle indagini.

"Il procuratore generale saudita non ha fornito alcuna prova o informazione al nostro procuratore" quando è venuto in Turchia, ha aggiunto citato da Anadolu, tornando a criticare il Regno per non aver estradato i 15 sospetti, "tra cui si trova l'assassino". "Purtroppo, alcuni Paesi musulmani non hanno detto la verità e non sono stati dalla parte della giustizia" in questa vicenda, ha concluso Erdogan. Affari e geopolitica s'intrecciano indissolubilmente in politica estera, soprattutto quando si tratta di Medio Oriente. Per l'amministrazione Usa, nella regione gli alleati imprescindibili sono due: Israele e Arabia Saudita. Ai quali il tycoon di Washington concede tutto, e condona tutto. Erdogan ne ha preso atto e ha deciso la sua risposta. In Siria. Sfidando sul campo gli Stati Uniti. Un campo di battaglia.

Dopo le due offensive oltre confine degli ultimi due anni, il presidente turco annuncia che i "preparativi" per un nuovo attacco sono finiti. Ma stavolta l'obiettivo appare molto più complicato. Perché l'area che Erdogan ha messo nel mirino è controllata di fatto dalle forze Usa che da anni sostengono le milizie curde dell'Ypg nella lotta all'Isis, addestrandole e armandole. E nella regione sono presenti almeno 2.200 militari a stelle e strisce, contro cui i soldati di Ankara - alleati nella Nato - rischiano di scontrarsi direttamente: un'ipotesi catastrofica, dalle conseguenze imprevedibili per l'intero Medio Oriente. I preparativi sono già stati completati, questo significa che l'operazione può iniziare in qualsiasi momento. Nel mirino della Mezzaluna, ci sono soprattutto i territori intorno a Kobane, la città che nel 2014 resistette eroicamente all'assedio dello Stato islamico, e altri villaggi che si trovano vicino al confine fra Siria e Turchia e che, a detta di Ankara alimentano un vero e proprio "corridoio del terrore".

Questo, nonostante la Mezzaluna abbia costruito sul confine un muro lungo oltre 700 chilometri, tanto quanto la frontiera con la Siria, dotato di sistemi radar e di rilevamento di persone od oggetti estremamente sofisticati. "Le forze turche sono pronte a entrare nella città di Manbij, nel nord della Siria, se gli Stati Uniti non allontaneranno dall'area i militanti curdo-siriani delle Unità di protezione del popolo (Ypg), da Ankara considerate un'organizzazione terroristica. Erdogan lo ha ribadito oggi, dopo che nei giorni scorsi aveva preannunciato una nuova operazione militare "a est del fiume Eufrate". Si tratterebbe della terza offensiva turca in territorio siriano negli ultimi due anni. Gli scorsi mesi sono stati contraddistinti da un lungo braccio di ferro tra Turchia e Stati Uniti in merito all'applicazione dell'accordo stretto dalle due parti lo scorso giugno, che ha già dato avvio a pattugliamenti congiunti nella regione ma che prevede anche l'espulsione dei curdo-siriani, con i quali Washington ha proficuamente collaborato nelle operazioni di contrasto allo Stato islamico. "Manbij è un posto in cui vivono arabi che si sono arresi a un'organizzazione terroristica", ha detto oggi Erdogan in un intervento durante una riunione dell'Organizzazione della cooperazione islamica a Istanbul.

"Adesso vogliamo essere molto chiari: dovete fare pulizia, rimuovere i terroristi, o altrimenti entreremo a Manbij", ha aggiunto il capo dello Stato di Ankara rivolgendosi direttamente agli Stati Uniti. La Turchia, secondo il presidente, è determinata a portare "pace e sicurezza" nelle aree a est dell'Eufrate, dove lo Ypg controlla un territorio che si estende per oltre 400 chilometri lungo il confine. "Non tollereremo – ha aggiunto – un singolo giorno di ritardo". Ieri un portavoce dei ribelli siriani filo-turchi citato dal quotidiano Hurriyet ha affermato che almeno 15 mila combattenti sarebbero pronti a sostenere la nuova incursione turca in territorio siriano. Gli Stati Uniti, che nelle ultime settimane hanno istituito posti di osservazione lungo il versante siriano del confine, si sono detti contrari all'ipotesi dell'operazione militari, assicurando che i nuovi avamposti servirebbero a ridurre ogni minaccia alla sicurezza della Turchia proveniente dalla Siria.

"Quando prendiamo delle decisioni sulla Siria non lo facciamo solo per fornire sicurezza al nostro Paese – ha tuttavia dichiarato oggi Erdogan – ma anche per difendere l'onore del popolo". Lo stesso presidente turco ha quindi annunciato che proseguiranno anche le operazioni di antiterrorismo nel nord dell'Iraq, mirate in particolare contro le posizioni del Partito curdo dei lavoratori (Pkk), anch'esso considerato un'organizzazione terroristica. A questo proposito, Erdogan ha indicato che nella giornata di ieri sono stati condotti attacchi aerei nelle regioni di Sinjar e del Monte Karajak. Tra gli obiettivi colpiti ci sono rifugi, caverne, tunnel e depositi, secondo il ministero della Difesa di Ankara, che parla di un'operazione mirata a garantire la sicurezza delle sue frontiere e prevenire attacchi terroristici. Forza la mano, Erdogan, per mettere ancora alla prova la Casa Bianca. Nel pomeriggio, il presidente turco ha avuto una conversazione telefonica con il suo omologo americano, con l'impegno di sviluppare "un coordinamento più efficace tra Turchia e Usa", in Siria, secondo quanto riferito dall'agenzia Anadolu.

Intanto, sul campo le forze curdo-siriane sostenute dagli Usa hanno "liberato centinaia di civili" nella Siria orientale intrappolati nei combattimenti tra Isis e forze della Coalizione internazionale a guida americana. Citati dalla tv panaraba al Arabiya, lo riferiscono vertici militari delle forze curdo-siriane, che operano nel quadro della Coalizione, e che sono avanzate nelle ultime ore nel centro di Hajin, cittadina nella zona ancora in mano all'Isis. Tra offensive in atto e quelle minacciate, in Siria la pace è ancora un'utopia. Più di mezzo milione di morti: è il nuovo bilancio, fornito il 10 dicembre dall'Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus), delle violenze in Siria scoppiate nel marzo del 2011 e ancora in corso nel quadro di una guerra interna trasformatasi presto in un conflitto regionale in cui sono coinvolti eserciti e milizie di diversi paesi. L'Ondus da undici anni monitora le violazioni in Siria e si avvale di una fitta rete di fonti sul terreno.

L'Organizzazione ha sede in Gran Bretagna ed è stata fondata da un dissidente siriano in esilio, ma in questi anni è stata più volte citata anche da media vicini al governo di Damasco quando denunciava crimini commessi da oppositori, forze statunitensi o gruppi radicali. L'Ondus ha contato in tutto l'uccisione di 560mila persone. Ma ha potuto documentare con certezza la morte di 367.965 persone. Delle 560mila contate, 111.330 sono civili, di cui 20.819 minori e 13.084 donne. Tra gli armati, si contano 65.048 membri dell'esercito regolare siriani e 50.296 miliziani lealisti siriani. Tra le formazioni radicali, 65.108 sono gli uccisi nelle file dell'ala siriana di al Qaeda e dell'Isis. Nei ranghi dei gruppi armati delle opposizioni, 63.561 uccisi, e in questa cifra sono inclusi anche i miliziani curdo-siriani. Tra le vittime, ci sono anche 1.675 miliziani Hezbollah, il movimento sciita libanese alleato di Damasco e dell'Iran. Degli oltre 500mila uccisi, 104mila risultano morti sotto tortura nelle carceri governative siriane. Una tragedia che non risparmia i più indifesi tra gli indifesi: i bambini. Metà dei bambini nati in Siria dall'inizio del conflitto scoppiato quasi 8 anni fa, è cresciuto conoscendo soltanto la guerra".

Questa l'amara constatazione di Henrietta Fore, direttore generale dell'Unicef, di ritorno da una missione di cinque giorni nel Paese devastato dal conflitto. "Questi bambini – afferma – devono poter tornare a scuola, ricevere vaccini e sentirsi al sicuro e protetti. Dobbiamo poterli aiutare". Visitando alcune delle aree da poco tornate accessibili in Siria, Fore ha visto come il conflitto abbia colpito famiglie, bambini e le comunità in cui essi vivono. A Douma, nel Ghouta orientale, solo pochi mesi dopo la fine di un assedio durato 5 anni, le famiglie sfollate hanno iniziato a ritornare e la popolazione della città adesso è stimata essere di circa 200.000 persone. Molte famiglie sono tornate negli edifici danneggiati e la minaccia di ordigni inesplosi è molto alta. Da maggio 2018, sono stati 26 i bambini uccisi o feriti in tutto il Ghouta Orientale a causa di questi ordigni. "A Douma, le famiglie vivono e crescono i loro bambini tra le macerie – aggiunge Henrietta Fore -, lottano per l'acqua, cibo e riscaldamento in questo clima invernale. Ci sono 20 scuole, tutte sovraffollate e che hanno bisogno di formazione per giovani insegnanti, di libri, materiali scolastici, porte, finestre ed elettricità".

A Douma, Unicef ha dato il proprio contributo per l'allestimento di una clinica informale all'interno di una moschea danneggiata. Fore ha visitato, inoltre, ad Hama un centro in cui giovani ragazze e ragazzi imparano come opporsi alla violenza di genere. Fenomeni come bullismo, molestie, aggressioni fisiche e matrimoni precoci, sono infatti aumentati in questi anni e la quotidianità delle violenze della guerra fa credere che rientri tutto nella "normalità". Nell'ultima tappa del suo viaggio, Fore ha visitato la città di Deraa, dove Unicef ha aiutato a costruire una rete idrica per l'acqua potabile. "A circa 8 anni dall'inizio del conflitto, i bisogni sono ancora enormi – conclude la Fore – Ma i milioni di bambini nati durante questa guerra e che crescono fra le violenze sono pronti: vogliono imparare. Vogliono giocare. Vogliono guarire". E uscire dal tunnel infinito della sofferenza.

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