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Politica

È peggio Matteo Renzi o Massimo D’Alema? Il congresso Pd si infiamma sul passato

Ansa
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Una volta, il Partito democratico si divideva su chi mettere nel "pantheon" della nuova sinistra. Oggi, i candidati alla segreteria si rinfacciano il sostegno e le intese, o presunte tali, strette con i dirigenti del passato. È forse il segno più evidente del declino del centrosinistra, rimasto privo di punti di riferimento positivi e costretto a cercare fuori da sé (nel Movimento Cinque Stelle come negli "autoconvocati" di Roma e Torino) quella capacità ormai smarrita di parlare alla società.

Qualcosa di analogo accadde anche nel 2001-2002, dopo la seconda vittoria berlusconiana, con la stagione dei girotondi, il protagonismo dei sindaci, il ritorno infine di Romano Prodi. La differenza è che allora si trattava di ridare un riferimento a un elettorato disorientato, mentre oggi buona parte di quello stesso elettorato ha trovato un nuovo approdo proprio nel M5S e con questo bisogna fare i conti in qualche modo (ma quale?).

E allora chi sono oggi i dirigenti con i quali "non vinceremo mai", come urlò Nanni Moretti dal palco di piazza Navona? Nicola Zingaretti e Maurizio Martina si rimpallano accuse, si rinfacciano nomi e cognomi, nel primo vero scontro di questa campagna congressuale. Al centro – corsi e ricorsi – c'è ancora una volta Massimo D'Alema e il suo presunto asse (ultra smentito) con il governatore del Lazio per un listone comune in vista delle elezioni europee.

"D'Alema non rispunta per niente", garantisce Paolo Gentiloni, chiamato in causa da Carlo Calenda per il suo appoggio a Zingaretti. E il candidato ne approfitta per far sapere che lui sente spesso anche Walter Veltroni, nonostante l'ex segretario non voglia entrare nell'agorà congressuale, e per rigirare la frittata addosso al suo competitor: "Martina è il vecchio gruppo dirigente. Lo dice la storia, non lo dico io. Lo stesso gruppo dirigente responsabile della sconfitta si è candidato con l'ex vicesegretario. È legittimo, ma bisogna voltare pagina". Un'affermazione che però lo espone al contropiede del capogruppo al Senato Andrea Marcucci, già renziano di ferro oggi con Martina: "È sbagliato, ed anche un po' offensivo, che Zingaretti giudichi Gentiloni, Franceschini, Orlando, tanti altri ex ministri e sottosegretari (oggi sostenitori del Governatore laziale, ndr)? Vecchio gruppo dirigente perdente'. Io sono e resto orgoglioso di quello che ha fatto il Pd con i Governi Renzi e Gentiloni".

In quello che doveva essere un congresso per disegnare il futuro della sinistra, lo sguardo resta insomma rivolto al passato. Su "chi ha sbagliato più forte" tra D'Alema e Renzi, sui piani per ricostruire i Ds attribuiti da Luca Lotti (oggi con Martina) a Zingaretti e prontamente smentiti ("una fake news"), su chi ha il passato più lungo e turbolento. "Quando lui ha iniziato a fare il dirigente di partito, io andavo alle scuole medie", afferma Martina rivolgendosi al suo avversario. E poi prova a stemperare: "Dobbiamo avere in testa la nuova appartenenza più che la vecchia e quando qualcuno evoca delle scorciatoie, secondo le quali si ricostruisce il centrosinistra con un'intesa di pochi, fa un ragionamento insufficiente rispetto al Paese, che è cambiato". Ma lo stesso Martina, dal canto suo, è dipinto dai suoi detrattori come colui che è stato "veltroniano con Veltroni, bersaniano con Bersani e renziano con Renzi".

Insomma, non il massimo della coerenza. "Questo botta e risposta tra i due principali candidati degli apparati su chi è più nuovo o su chi è meno funzionario di partito dell'altro è stucchevole – prova a fischiare il time out Francesco Boccia – e non fa bene al Pd. Mettete da parte le polemiche inutili, liberatevi dagli apparati e confrontiamoci sul merito delle proposte".

Sembra semplice, ma non lo è affatto. Perché se si esce dai circoli parlamentari e si guarda a quanto sta accadendo nei territori, in coincidenza con le primarie regionali e in vista delle convenzioni nei circoli, i posizionamenti sono già partiti. A grandi linee, con i renziani da una parte (vedi il sostegno dichiarato da Vincenzo De Luca a Martina) e con ex Ds ed ex Popolari "tradizionalisti" dall'altra (ieri, ad esempio, vittoriosi nei gazebo umbri con l'ex sottosegretario Bocci). Certo non mancano le eccezioni, i passaggi di schieramento, ma se gli equilibri che si stanno determinando sono più o meno questi, non conviene a nessuno rinfacciarsi le reciproche provenienze.

Così come non è facile attribuire oggi i possibili approdi. Chi vuole lasciare il partito (Renzi? Calenda?) e chi no. Luca Lotti, braccio destro e sinistro di Renzi, nega di voler abbandonare il progetto e Anna Ascani, candidata come vice di Roberto Giachetti, ancora oggi ribadisce: "Spero non prevalga la linea di Zingaretti, perché poi non sarebbe maggioritaria nel Paese. Ma se perdiamo non lasciamo il Pd". Chi vuole alle europee una convergenza con gli scissionisti bersanian-dalemiani (nessuno, messa così esplicitamente) e chi immagina un'apertura della lista dem anche a contributi esterni (praticamente tutti, ma senza scendere nei dettagli). Chi vuole dialogare con i 5S (esplicitamente il solo Boccia, ma è una voce dal sen fuggita anche al vice di Zingaretti alla Pisana e coordinatore del suo movimento, Massimiliano Smeriglio), chi non vuole averci nulla a che fare (Giachetti) e chi ecumenicamente vuole recuperare gli ex elettori dem passati sotto le cinque stelle (sia Martina che, nelle dichiarazioni ufficiali, Zingaretti).

Seppur in maniera caotica, il dibattito congressuale è insomma entrato nel vivo, anche se appare ancora inquinato da fattori esterni (il dialogo con M5S, il ruolo di D'Alema). C'è tempo fino al 7 gennaio, quando inizieranno le prime riunioni di circolo e quindi le prime votazioni tra gli iscritti, per capire meglio cosa divide e cosa unisce i candidati, al di là delle vecchie appartenenze.

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