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Esteri

Le 8 fatiche di Mike Pompeo, missione nel mondo arabo sunnita spaventato da Donald Trump

Bloomberg via Getty Images
Bloomberg via Getty Images 

Una mega missione nei Paesi arabi sunniti per rassicurare i suoi più che preoccupati interlocutori che il dietrofront, sia pure diluito nel tempo, dei 2000 soldati statunitensi di stanza in Siria, voluto dal presidente Donald Trump, non significa che l'America si stia disimpegnando dal sempre più destabilizzato quadrante mediorientale. E già questa opera di convincimento appare impresa alquanto ardua. Se poi si aggiunge che ad accompagnarlo in questa missione c'è anche l'affermazione di The Donald secondo cui in Siria "l'Iran può fare ciò che vuole, francamente", ecco allora che l'imminente tour del segretario di Stato Usa Mike Pompeo in Medio Oriente assomiglia a una mission impossible.

Le otto fatiche di Pompeo. Otto, come i Paesi che l'ex direttore della Cia oggi segretario di Stato visiterà dall'8 al 15 gennaio prossimi: Giordania, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Arabia Saudita, Oman, e Kuwait.

"Il segretario cercherà un aggiornamento sullo stato delle indagini sulla morte del giornalista Jamal Khashoggi", ha rimarcato il portavoce del Dipartimento di Stato, Robert Palladino. Cosa che che complica ulteriormente la missione. Nel tentativo di rassicurare tutti gli alleati, vecchi e nuovi, il capo della diplomazia Usa rischia di ottenere il risultato opposto. Un esempio? Il recente riavvicinamento, sul fronte siriano, di Donald Trump col suo omologo turco, Recep Tayyp Erdogan. Un riavvicinamento che per Ankara suona come un via libera americano alla resa dei conti finale con i curdi, a cominciare da quelli siriani.

Della realtà curda Adriano Sofri è un profondo conoscitore. In una intervista di alcuni giorni fa, "Pompeo - annota su Il Foglio Sofri - ha detto testualmente che gli Stati Uniti vogliono assicurarsi che 'i turchi non massacrino' (slaughter) i curdi siriani. Dunque l'amministrazione americana, per bocca del suo maggior responsabile internazionale, è persuasa che allo stato dei fatti il suo ritiro comporti il 'massacro' dei curdi"... "La frase di Pompeo sul 'massacro', che appare come un ripensamento realistico e una preoccupazione per gli alleati curdi, suona in realtà candidamente cinica...".

Oggi, è l'aggiornamento della dottrina-Trump su scala mediorientale. La Turchia di Erdogan è diventata un'alleata irrinunciabile e da sottrarre all'abbraccio russo, tanto da poterle concedere i sistemi missilistici Patriot, finora negati da tutte le amministrazioni. Un'apertura di credito che va ben oltre il pur importante aspetto militare, al punto da indurre il "Sultano di Ankara" ad adottare al sistema missilistico russo S-400. D'altro canto, del destino dei curdi, ai petromonarchi del Golfo, come al presidente-generale egiziano Abdel Fattah al-Sisi, importa poco o nulla. Ciò che turba i loro sonni è l'affermarsi della mezzaluna rossa sciita sulla direttrice Baghdad-Damasco-Beirut. E qui il segretario di Stato Usa è chiamato a fare i conti...con se stesso. E con la sua dottrina che non fa della distensione, almeno in Medio Oriente, una priorità. O meglio, la distensione, nell'ottica dell'America first, per essere contemplata deve venire a seguito di un ridimensionamento sostanziale della presenza iraniana in Medio Oriente; ridimensionamento che, nello schema dei falchi di Washington, è un passaggio ma non la meta. Perché la "meta" resta l'abbattimento del regime degli ayatollah. Ed è proprio la meta a dividere Stati Uniti ed Europa.

Gli affari c'entrano, eccome, e aver deciso di uscire unilateralmente da un accordo fortemente voluto e oggi difeso dall'Europa, è anche uno schiaffo, pesante, inferto su questo piano da The Donald ai leader del Vecchio Continente. Ma gli affari non spiegano tutto. Perché alla base dell'accordo del 2005, c'era la convinzione, da parte europea e dell'allora presidente Usa Barack Obama, che "sdoganare" non il regime in toto, ma la sua componente riformatrice che aveva e ha in Rouhani il suo terminale, poteva fare dell'Iran un soggetto stabilizzatore dei conflitti che segnano il Grande Medio Oriente. Un interlocutore da incalzare, non un nemico da abbattere. Rouhani, dal canto suo, aveva investito su quell'accordo, per vedersi riconosciuto questo ruolo di stabilizzatore e, cosa non meno importante, fare di quell'accordo il volano per l'ingresso di nuovi capitali occidentali, decisivi per dare corso a quelle promesse di riforme sociali ed economiche che hanno convinto i giovani, la classe media urbana, a sostenerlo contro i conservatori guidati dalla Guida suprema, l'ayatollah Ali Khamenei.

Scegliendo la linea durissima, Pompeo sa bene chi ne risulterà avvantaggiato nello scontro interno al regime iraniano: Ali Khamenei. Ma per raggiungere la meta finale, l'America di Trump ha bisogno che il volto dell'Iran sia il più impresentabile e minaccioso, per dimostrare che quel regime è irriformabile, come lo era, ai tempi di Ronald Reagan l'Urss di Michail Gorbaciov. Solo che qualche giorno, l'inquilino della Casa Bianca ha affermato che "l'Iran può fare ciò che vuole in Siria, francamente" durante una riunione del governo e davanti alle telecamere. Una fonte del governo israeliano ha risposto in modo anonimo sul giornale Yedioth Ahronoth: "E' triste che il presidente americano non guardi il materiale d'intelligence che gli passiamo". E qui le "8 fatiche" di Pompeo si moltiplicano. Perché l'alleanza tra Riyadh e Gerusalemme – fortemente voluta dal principe ereditario Mohammed bin Salman e dall'influente consigliere nonché genero di Trump, Jared Kushner - si fonda sulla comune determinazione a contrastare l'espansionismo iraniano in Medio Oriente.

La decisione di The Donald, nella visione del Regno, favorisce la mezzaluna rossa sciita, facendo della Siria una sorta di protettorato iraniano-turco, governato attraverso il "burattino di Damasco", il presidente Bashar al-Assad. E qui che Pompeo deve mostrare inaspettate doti di equilibrista: garantire Assad per strapparlo dall'abbraccio iraniano. Come? Il piano originario era quello di rimpiazzare le truppe statunitensi con una forza militare araba alla quale sarebbe spettato il difficile compito di supportare le milizie curde contenendo le ire di Ankara e contrastando una possibile avanzata dell'Isis. Il tutto a pochi passi dalle truppe filoiraniane presenti nel sud e nell'ovest della Siria. Secondo il report del Wall Street Journal, che aveva dato per primo la notizia, era stato l'allora ministro degli Esteri saudita, Adel al Jubeir, ad aver offerto a Washington la disponibilità a portare avanti l'impresa. Una disponibilità che non sembra venuta meno ma che Washington intende rimodulare alla luce dei convincimenti maturati negli ultimi tempi e che hanno portato i custodi del dossier siriano nell'amministrazione Trump, a considerare l'uscita di scena del rais di Damasco non più come una priorità per la stabilizzazione della Siria.

I rapporti di forza consolidati sul campo hanno avuto importanti ricadute sul fronte politico-diplomatico, con l'inizio della riabilitazione del "paria Assad" nella "famiglia araba". L'atto più significativo del riavvicinamento tra Siria e mondo arabo si è registrato il 14 dicembre, quando il Parlamento arabo, organismo espressione della Lega Araba, ha esortato i leader dei ventidue Paesi dell'organizzazione a riammettere la Siria, esclusa dal consesso da ormai sette anni. I primi segni tangibili di questo riavvicinamento sono già arrivati: riapriranno infatti presto a Damasco le ambasciate degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein, monarchie del Golfo che negli ultimi sette anni hanno sostenuto i ribelli anti governativi interrompendo i rapporti con Damasco. L'obiettivo non è più la conquista del potere centrale ma la stabilizzazione di quello acquisito localmente. Le opposizioni controllano zone periferiche esposte agli interventi esterni: Idlib - dove si concentrano gli jihadisti altrove costretti alla resa - e la Turchia, Daraa e la Giordania, il Golan occupato da Israele e conteso dall'Iran con Hezbollah, Qalamun in Libano dove emissari iraniani acquistano terreni e fanno proseliti in zone abbandonate dallo Stato. La costa è ormai un protettorato russo, mentre l'Iran ha messo in sicurezza il corridoio che lo collega con il bacino orientale del Mediterraneo passando per Baghdad, Damasco e Beirut. E' il nuovo equilibrio siriano: tanti tasselli di un puzzle che Pompeo prova a comporre in un quadro compatibile con le mire dei vari attori regionali. La prima delle "8 fatiche".

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