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Cultura

Siria-Palestina, molto di più di una partita di calcio

Matthew Ashton - AMA via Getty Images
Matthew Ashton - AMA via Getty Images 

Un campo di calcio per chi conosce soprattutto campi di battaglia. Da una parte un popolo senza Stato che fa della sua nazionale e dei suoi componenti il simbolo di una speranza di libertà e di vittoria che va ben oltre il risultato sportivo: è la nazionale della Palestina. Dall'altra una squadra sopravvissuta a otto anni di guerra civile, a oltre 500mila morti, oltre 6milioni di profughi interni e di rifugiati, e che prova a unire ciò che la guerra ha lacerato: è la nazionale della Siria.

Si incontrano negli Emirati Arabi Uniti, nell'ambito della Coppa d'Asia 2019. Lo stadio di Sharjah, che ospita l'incontro, ha fatto registrare il "tutto esaurito" per quello che si presenta come l'evento più atteso della fase a gironi del torneo. Non certo per lo spettacolo in campo. Siria versus Palestina è molto più di una partita di pallone. Per ciò che rappresenta, per le storie dei suoi protagonisti.

Già presente ai campionati del 2015, la rappresentativa nazionale della Palestina trova nel calcio quel riconoscimento internazionale dei diritti del popolo palestinese che altrove non riscontra. Altrettanto emotivamente sentita è la partecipazione della squadra siriana, che a causa della guerra si allena e sostiene da anni i propri incontri "casalinghi" all'estero. Benché in passato la nazionale siriana sia stata accusata di essere uno strumento di legittimazione politica per il governo di Bashar al-Assad, molti osservatori sostengono oggi che la squadra, che ha mancato di un soffio la qualificazione ai mondiali della scorsa estate, sia un veicolo di riunificazione. Alcuni giocatori, tra cui la punta Firas al-Khatib, che in passato avevano boicottato la nazionale per motivi politici, sono rientrati da alcuni mesi in squadra.

Per la Siria il ritorno in campo in Coppa d'Asia significa un altro tassello verso il ritorno alla normalità. E così, nella capitale come ad Aleppo, ad Homs come nelle zone orientali del Paese, si allestiscono maxi schermi e ci si organizza con amici o nei bar più vicini per guardare la partita. Le strumentalizzazioni politiche vanno messe in conto – il regime di Assad ha cavalcato la partecipazione della Siria alla Coppa d'Asia negli Emirati come la conferma di un ritorno, non solo sportivo ma a diplomatico, di Damasco nel consesso arabo - ma i tanti che si riuniranno per guardare l'incontro, per tifare e gioire per un goal, condividono un desiderio: dimenticare, almeno per 90 minuti, gli orrori che scandiscono da anni la loro quotidianità.

Storie di riscatto, di una voglia di normalità che non è stata cancellata dagli orrori della guerra. E la storia, ad esempio, di una piccola squadra di un sobborgo di Damasco. Si chiama Al-Muhafaza Sporting Club: fondata nel 1988, il palmares non risulta particolarmente significativo ma la società si è sempre distinta per una scrupolosa attenzione nel lanciare giovani talenti locali. Anche quest'anno il suo piccolo stadio da mille posti ospiterà la massima serie del campionato, con le altre squadre della capitale, di Aleppo e di altre città siriane che giocheranno qui. Ma l'attenzione su questo club da parte di pubblico e stampa sarà orientata, prima ancora che sul campo, sulla panchina. Per la prima volta qui infatti, siederà una donna. Si tratta della giovane Maha Janoud, ex giocatrice ed ex allenatrice della nazionale siriana di calcio femminile. Laureata in psicologia a Damasco, come si legge nel suo profilo di Linkedin, il calcio è sempre stata la sua più grande passione. Coltivata tra le bombe, mentre tutto, attorno a lei raccontava di morte, distruzione. Lo sanno bene i bambini e i ragazzi di Yarmouk, il campo profughi palestinese a sud di Damasco, simbolo della disumanità di otto anni di guerra, costretti a guardare miliziani dell'Isis che avevano conquistato il campo, giocare utilizzando le teste dei nemici decapitati come palloni.

Passione e riscatto: è ciò che unisce le due nazionali, che rende l'incontro qualcosa di emozionante, non per i suoi gesti tecnici, anche se in campo ci sono anche talenti potenziali, ma per quello che esserci significa per tutti loro. "Gioco a calcio a Gaza da quando ero un bambino. Sono cresciuto giocando nelle strade polverose del campo rifugiati di Bureij" ha scritto sul New York Times Iyad Abu Gharqoud, giocatore della Nazionale palestinese. "Lo sport mi dà una grande gioia e giocare da professionista è un lavoro che amo. Ma lo sport mi ha anche costretto a confrontarmi con una realtà durissima. Poiché i palestinesi non hanno uno Stato, è la polizia israeliana che decide se io e i miei compagni di squadra possiamo spostarci da Gaza alla Cisgiordania per allenarci e andare all'estero per partecipare alle partite internazionali".

Una difficoltà ripetutasi anche in questa occasione. Stavolta, però, la nazionale palestinese può contare su alcuni gioielli che vengono dal club di Gerusalemme Est (Hilal-Al-Quds), di Hebron (Ahli Al-Khalil), dell'area di Ramallah (Shabab Al-Bireh), ai quali, ecco la novità più significativa sul piano sportivo-politico, si sono aggiunti quattro calciatori provenienti dal Israele, arabi-israeliani, nati in città come Taibeh, Shfaram e Acri. "Il calcio palestinese – rimarcano Shireen Ahmed e Dave Zirin in una inchiesta pubblicata da The Nation - ha combattuto una battaglia indescrivibile persino per competere su un palcoscenico internazionale. Vivono sotto l'occupazione, hanno avuto le loro strutture di allenamento distrutte, hanno fatto fronte alla detenzione di giocatori, alla morte di compagni di squadra e all'impossibilità di muoversi liberamente attraverso i checkpoint militarizzati israeliani al fine di allenarsi e competere nelle partite. Ciò ha portato ad una campagna internazionale con calciatori di spicco che chiedevano alla FIFA di espellere Israele dalla sua associazione o almeno di impedire che ospitasse tornei sanzionati dalla FIFA. Hanno anche dovuto assumersi l'onere di avere allenatori, mentori e potenziali giocatori uccisi durante la guerra e il blocco in corso a Gaza. Questo è il motivo per cui la squadra di calcio palestinese è affettuosamente conosciuta come "Al-Fedayi," che significa "colui che sacrifica la vita per il bene della patria", e gli "Strivers" in Inglese. Impegno e sacrificio sono stati entrambi componenti necessarie per rendere questa apparizione in Coppa d'Asia una realtà....".

L'articolo è del gennaio 2015. Quattro anni dopo, la Palestina è ancora in campo, a giocarsela con orgoglio che scatta con l'inno nazionale. L'obiettivo non è solo la vittoria, ma accendere i riflettori sulle capacità e sul recupero degli atleti palestinesi. Come Ashraf Al-Nu'man Fawaghra ha spiegato durante un'intervista alla FIFA.com: "Il nostro obiettivo è quello di far sapere al mondo che la squadra nazionale palestinese sta andando avanti nonostante le difficoltà che ci attendono. Vogliamo trasmettere il messaggio che i giocatori palestinesi hanno il diritto di giocare e di svilupparsi. Inoltre, vogliamo riportare il sorriso sui volti della nostra gente e fare felici i nostri tifosi".

Per comprendere cosa significhi sognare calcio, giocare a calcio, per chi non ha altre strade per sognare e provare a realizzarsi, un consiglio: provate a ritrovare sui social, You Tube o altro, "Footballization", un documentario uscito alla fine dell'estate che ha come location gli improbabili campi da calcio nei campi profughi in Libano. Storie di vita e di sport intrecciate lungo un'intera stagione calcistica, raccontate da un campo profughi palestinese, Borj-el Barajneh, un chilometro quadrato nella periferia sud di Beirut, passato da 25mila a 45 abitanti nel giro di pochi anni, con l'arrivo dei profughi siriani in fuga dalla devastante guerra civile di Damasco. "Ogni bambino nel campo non ha in mente altro che il calcio. Tutta la mia vita in Siria ruotava attorno al pallone". Louay, Yazan e Rami sin da piccoli giocavano insieme sui campi da calcio del campo palestinese di Yarmouk, in Siria. Con l'intensificarsi del conflitto attorno a Damasco, hanno lasciato la Siria per trovare riparo in Libano, nel campo di Borj-el Barajneh alla periferia di Beirut. Da un campo all'altro, da una squadra all'altra. I 3 si sono ritrovati insieme nei ranghi dell'Al-Aqsa, la squadra palestinese simbolo del campo di Borj-el Barajneh. Un vero e proprio laboratorio multi-etnico e multi-nazionale, dove giocano e si allenano palestinesi-libanesi, siriani, palestinesi-siriani, libanesi e... anche un italiano! Nella scorsa stagione l'Al-Aqsa è arrivata persino a giocarsi la finale della Coppa Palestinese in uno scontro epico risolto solo ai rigori. Jamal e Nassar erano i calciatori più promettenti della rosa, ma hanno dovuto riporre i loro sogni per via del passaporto: un rifugiato in Libano fatica a trovare spazio nella lega ufficiale!

Quando aveva solo 9 anni, Ibrahim Khattab perse la gamba sinistra durante l'operazione militare di Israele "Protective Edge" nel 2014 contro Gaza. L'assalto di 50 giorni lasciò oltre 2100 palestinesi morti, la maggior parte dei quali civili. Lui e i suoi amici stavano giocando a calcio davanti alla sua casa nel campo rifugiati di Deir al-Balah, nel sud della Striscia di Gaza, quando fu colpito da un drone israeliano. Perse subito i sensi e fu trasferito al più vicino ospedale. Quando si risvegliò alcune ore dopo, scoprì che aveva perso la sua gamba sinistra. Ora il 13enne Khattab è il più giovane membro della prima squadra di calcio di amputati di Gaza, costituita a marzo di quest'anno. Khattab dice che il lunedì, il giorno in cui la squadra si incontra per l'allenamento, è diventato il suo giorno preferito della settimana. La squadra di calcio di 13 amputati, denominata "la Squadra dei Campioni", si incontra una volta a settimana per un allenamento di tre ore. Khattab condivide con i suoi compagni un sogno: viaggiare per rappresentare la Palestina in partite internazionali. Oggi Khattab e i suoi compagni, assieme alla gente di Gaza, guarderanno la partita, e lo stesso faranno tanti siriani. Il risultato è secondario. La partita della "normalità" ha solo vincitori.

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