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Esteri

Il "tour delle scuse" di Pompeo non conquista gli alleati né arresta il ritiro Usa dalla Siria

Anadolu Agency via Getty Images
Anadolu Agency via Getty Images 

La carta della disperazione Mike Pompeo la mette sul tavolo al Cairo, ma quella calata appare una carta, o meglio un'arma, spuntata, perché nel suo lungo tour arabo, 9 Paesi visitati, il segretario di Stato Usa ha dovuto fare i conti con l'irritazione dei suoi interlocutori sunniti per la decisione voluta da Trump di ordinare il ritiro, iniziato ufficialmente oggi, dei 2000 soldati americani di stanza in Siria. Che la sua missione non fosse una marcia trionfale, ciò era ben chiaro all'ex direttore della Cia e ai suoi più stretti collaboratori, ma che finisse per trasformarsi in una dolorosa "Via Crucis" diplomatica, neanche Pompeo lo aveva messo in conto.

Inaffidabile: così nelle capitali arabe visitate dal capo della diplomazia statunitense, viene giudicato oggi l'inquilino della Casa Bianca. Un destino che avvicina The Donald al suo predecessore alla guida degli States, quel Barack Obama che nel vivo delle rivolte arabe del 2011 decise di scaricare alleati storici dell'America nella regione, a cominciare dal presidente egiziano Hosni Mubarak. E sì che Pompeo ce l'ha messa proprio tutta per smantellare la "dottrina Obama", scegliendo non a caso l'Egitto come scenario della rottura, in ricordo dello storico discorso sul "Nuovo Inizio" nei rapporti tra Usa e mondo arabo e musulmano pronunciato da Barack Hussein Obama al Cairo, 10 anni fa.

"In soli 24 mesi, gli Stati Uniti sotto il presidente Trump hanno riaffermato il loro tradizionale ruolo come forza per il bene nella regione, perché abbiamo imparato dai nostri errori. Abbiamo riscoperto la nostra voce, ricostruito le nostre relazioni, rigettato le false aperture dei nostri nemici", ha spiegato Pompeo nel discorso tenuto ieri all'American University del Cairo, che aveva l'obiettivo di invertire la rotta rispetto a quella indicata dal presidente Obama, con il suo intervento tenuto sempre al Cairo nel giugno del 2009. Allora il capo della Casa Bianca aveva cercato di aprire una nuova fase nelle relazioni con il mondo islamico, sunnita e sciita, che avrebbe poi portato all'accordo nucleare con l'Iran. Ora si torna al passato, cioè alla stretta alleanza con la componente sunnita egiziana e saudita, e alla sfida con Teheran.

Il Pompeo-pensiero, rafforza e attualizza le riflessioni di Pierre Haski, analista di punta del settimanale francese Obs, in un articolo su Internazionale: "Di fatto, una parte degli Stati Uniti non ha mai rinunciato a premere per un cambiamento di regime in Iran, in particolare nel corpo dei marines, che vive nella memoria dell'attentato di Beirut, e tra le fila dei neoconservatori, che hanno oggi il vento in poppa. Paradossalmente questi si rivelano essere, di fatto, gli alleati del clan dei falchi vicini alla Guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei, e dei comandanti del corpo dei Guardiani della rivoluzione e dei servizi di sicurezza della Repubblica islamica, che non hanno mai veramente digerito i negoziati per l'accordo nucleare con il "grande Satana" da parte del governo moderato guidato dal presidente Hassan Rohani. I falchi di Teheran, come quelli di Washington, non avevano niente da guadagnare dalla distensione auspicata tanto da Barack Obama quanto da Hassan Rohani. La scommessa dei due uomini si fondava sull'idea che il miglioramento della situazione economica cui aspira la popolazione iraniana, in particolare le classi medie urbane, le meno soggette all'influenza religiosa, avrebbe portano a una definitiva distensione tra i due paesi". Ma la distensione, almeno in Medio Oriente, non è una priorità per Pompeo. O meglio, la distensione, nell'ottica dell'America first", per essere contemplata deve venire a seguito di un ridimensionamento sostanziale della presenza iraniana in Medio Oriente; ridimensionamento che, nello schema trumpiano, è un passaggio ma non la meta. Perché la "meta" resta l'abbattimento del regime degli ayatollah.

La narrazione di Pompeo è efficace, ma ha un limite: cozza con la realtà. E con i tempi che corrono nel martoriato Medio Oriente. Perché oggi il player centrale nella partita mediorientale, a cominciare da quella siriana, non risiede alla Casa Bianca bensì al Cremlino, e perché è difficile convincere i due alleati più recettivi alle sirene anti-iraniane, Arabia Saudita e Israele, che l'America non intenda abbandonare il campo pur decidendo di abbandonare la Siria. La dottrina-Pompeo dice cosa non vuol ripetere, quella di Obama, ma non spiega, nei fatti più che a parole, in che modo intenda realizzarsi. Il fatto è che le rassicurazioni dispensate dal segretario di Stato Usa alla fine non rassicurano più di tanto in quello che assomiglia sempre più a un "tour delle scuse". Perché la convinzione diffusa nelle capitali arabe visitate da Pompeo, è che a gioire per il ritiro americano dalla Siria, siano proprio gli iraniani e, con loro, la Turchia di Erdogan, pronta a sferrare l'attacco finale contro le milizie curde siriane delle Ypg, con o senza la luce verde di Washington. E poi se le parole hanno un peso dato da chi le ha pronunciate, valgono di più rassicurazioni anti-Teheran dispensate dal segretario di Stato o quanto candidamente ammesso dal Presidente qualche settimana fa: "In Siria, l'Iran può fare ciò che vuole, francamente..."

Al momento l'unica cosa certa è che gli Stati Uniti hanno cominciato il ritiro militare dalla Siria. A riferirlo è il portavoce della Coalizione internazionale anti-Isis a guida Usa, colonnello Sean Ryan. "Per motivi di sicurezza, non riferiremo di scadenze, luoghi o movimenti di truppe", ha aggiunto Ryan. L'annuncio arriva poche ore dopo che un funzionario della Difesa Usa aveva riferito del ritiro di attrezzature militari americane dalla Siria. Dal canto suo, l'Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus) ha affermato che nelle ultime ore un convoglio di mezzi militari americani ha lasciato la Siria in direzione dell'Iraq attraversando il valico di Fishkhabur, sul Tigri, dalla città siriana di Rmeilan verso il Kurdistan iracheno.

"Deploriamo il fatto che la Coalizione a guida Usa continui a venire meno, anche adesso che inizia a ritirarsi, alla sua responsabilità di svolgere indagini degne di nota sulle centinaia di civili uccisi a Raqqa e altrove. La Coalizione sta vergognosamente dimenticando la devastazione lasciata dalla sua campagna di bombardamenti e, quel che è peggio, non ha alcuna intenzione di offrire ai sopravvissuti una qualche forma di rimedio o compensazione", dichiara la direttrice delle ricerche sul Medio Oriente di Amnesty International Lynn Maalouf "Da quando la battaglia di Raqqa è terminata – spiega - Amnesty International è stata sul posto numerose volte. Non uno delle centinaia di sopravvissuti con cui abbiamo parlato è stato contattato dalla Coalizione né tantomeno ha ricevuto assistenza nella fase in cui cercava di ricostruirsi una vita. La battaglia di Raqqa è iniziata mentre stava terminando quella di Mosul nel vicino Iraq. Il lascito di devastazione e impunità di Mosul avrebbe dovuto suggerire cautela a Raqqa. Invece, anche nella città siriana, gli attacchi aerei della Coalizione hanno ucciso moltissimi civili e distrutto abitazioni e infrastrutture civili su scala massiccia. Finita la campagna, la Coalizione non ha mosso un dito per fornire assistenza".

"Se la Coalizione avesse appreso dagli errori commessi in Iraq, l'enorme devastazione di Raqqa avrebbe potuto essere evitata. Abbandonare il terreno lasciandosi alle spalle questa grande distruzione civile è un abominio dal punto di vista umanitario, del tutto in contrasto coi valori proclamati dalla Coalizione", conclude Maalouf. "I raid israeliani in Siria, la guerra in Yemen, la Turchia pronta a sferrare un attacco contro i curdi, Assad al potere, l'Isis tutt'altro che sconfitto, l'Iran che espande la sua influenza regionale e la Russia quale potenza esterna più influente. Benvenuti nel Medio Oriente post americano". Twittava così Richard N. Haass, a lungo diplomatico e presidente del Council on Foreign Relations, poche ore dopo l'annuncio di The Donald sul ritiro dalla Siria.

Quella di Haass è la fotografia vera della situazione in Medio Oriente oggi. Un Medio Oriente, al di là della narrazione tranquillizzante di Mike Pompeo, destinato sempre più ad essere post americano. Il che significa sempre più dominato dalla mezzaluna rossa sciita. Una prospettiva che ha già fatto scattare l'allarme rosso a Gerusalemme. Per provare a rassicurare Israele, Trump ha spedito nei giorni scorsi a Gerusalemme il suo consigliere alla Sicurezza nazionale, il super falco John Bolton, uno dei più tenaci sostenitori dello spostamento dell'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme. Al premier Netanyahu, Bolton ha ribadito che Washington vede in modo "molto favorevole" gli attacchi aerei mirati con cui gli israeliani colpiscono le installazioni siriane usate dagli iraniani per passare armi ai gruppi combattenti sciiti che difendono Assad – come i libanesi di Haezbollah – e odiano lo Stato ebraico.

Ma questo sostegno era già dato per scontato da Netanyahu. In piena campagna elettorale, "Bibi" alza l'asticella delle richieste all'amico Donald, e dopo Gerusalemme, chiede che gli Usa facciano da apripista al riconoscimento della sovranità israeliana sul Golan, occupato dallo Stato dopo la Guerra dei Sei giorni del '67. Narrazione e realtà. Della prima, Pompeo è maestro quando, dal Cairo proclama che in Siria è stato praticamente annientato l'Isis ("Sono in grado di dire che abbiamo annientato il 99% del Califfato"). La realtà è che almeno 32 combattenti sono morti, l'8 gennaio, in un attacco dell'Isis contro le Forze democratiche siriane, alleanza curdo-araba, nell'est della Siria. Un episodio che dimostra come le milizie di al-Baghdadi, per quanto in rotta, siano tutt'altro che "annientate".

Dopo l'attacco, i miliziani del Daesh hanno abbandonato le loro postazioni, ripiegando a sud verso Susah. Questa è infatti l'ultima grande roccaforte controllata dai jihadisti nella Middle Euphrates River Valley (MERV) e probabilmente sarà qui che combatteranno la loro battaglia finale per la sopravvivenza nella provincia siriana. Una battaglia che sfugge a The Donald. Per lui - Pompeo e Bolton se ne facciano una ragione- la Siria, "terra di sabbia e morte", è già archiviata: la battaglia che conta, per il tycoon di Washington, è quella ingaggiata con i Democratici americani sulla costruzione del Muro anti-migranti alla frontiera col Messico.

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