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Esteri

Libia, lo scontro finale e il ricatto sui migranti

FEDERICO SCOPPA via Getty Images
FEDERICO SCOPPA via Getty Images 

La resa dei conti a Tripoli è iniziata da tempo, ma ora sembra essere alla stretta finale. Un fantasma si aggira per la città: è il primo ministro, ormai solo sulla carta, Fayez al-Sarraj. E nella partita in corso tra signori della guerra, capi milizie e capi tribù, due sono le armi di ricatto utilizzate nei confronti degli attori esterni, ma estremamente interessati, che intendono esercitare un ruolo di primo piano nel processo di stabilizzazione del Paese nordafricano: l'arma del petrolio e quella, non meno persuasiva, dei migranti.

Non si spiega solo con l'inefficienza, accertata, della Guardia costiera libica, e con l'acclarato deficit di coordinamento con le navi, quelle della missione Frontex, che operano fuori dalle acque territoriali libiche, la duplice tragedia del mare che è costata la vita ad oltre 170 persone. In pochi giorni, infatti, sono oltre 170 le vittime di due naufragi. In una prima nave colata a picco venerdì 18, al largo delle coste di Tripoli, c'erano 120 persone. Il numero dei rifugiati a bordo è stato ipotizzato grazie alla testimonianza di tre superstiti, tratti in salvo dalla Marina italiana. I dispersi sarebbero 117 di cui 10 donne e 2 bambini. Come riferisce il portavoce dell'Oim – Organizzazione internazionale migrazioni - Flavio Di Giacomo, "i tre sopravvissuti arrivati a Lampedusa ci hanno detto che erano in 120. Dopo 11 ore di navigazione hanno imbarcato acqua e hanno cominciato ad affondare e le persone ad affogare. Sono rimasti diverse ore in acqua. Tra i dispersi, al momento 117, ci sono 10 donne, di cui una incinta, e due bambini, di cui uno di due mesi".

Sotto shock, in ipotermia e traumatizzati, i superstiti sono stati accolti a Lampedusa. "Meglio morire che tornare in Libia", hanno raccontato, riferendo delle "violenze e gli abusi" cui sono stati sottoposti in Libia. "Siamo rimasti tre ore in mare, sperando che qualcuno si accorgesse di noi", hanno detto ai soccorritori. Secondo quanto riferito dall'Unhcr, che cita le notizie diffuse da una Ong, un altro naufragio con 53 morti è avvenuto nei giorni scorsi nel Mare di Alborán, nel Mediterraneo occidentale. "È stato riferito che un sopravvissuto - afferma l'Unhcr - dopo essere rimasto in balia delle onde per oltre 24 ore, è stato soccorso da un peschereccio e sta ricevendo cure mediche in Marocco. Per diversi giorni navi di soccorso marocchine e spagnole hanno effettuato le operazioni di ricerca dell'imbarcazione e dei sopravvissuti, senza risultati". Sono crimini contro l'umanità", ha subito affermato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, spiegando che, una volta "smesso questo mio mandato di servizio per il popolo italiano, mi dedicherò al diritto penale per perseguire e assicurare alla Corte internazionale" i trafficanti di uomini. "Sono rimasto scioccato da questa nuova strage, come premier non avrò pace fino a quando questi trafficanti, uno a uno, non saranno assicurati alla Corte internazionale penale. Siamo più convinti di prima nel contrastare i trafficanti", ha aggiunto. Nel macabro teatro della politica nostrana, la parte del duro spetta ormai di diritto a Matteo Salvini. "Altri morti al largo della Libia. Finché i porti europei rimarranno aperti, finché qualcuno continuerà ad aiutare i trafficanti, purtroppo gli scafisti continueranno a fare affari e a uccidere", ha scritto in un tweet il ministro dell'Interno commentando il nuovo naufragio al largo della Libia.

Salvini è poi passato a parlare del nuovo soccorso in mare della Ong Sea-Watch. "Si scordino di ricominciare la solita manfrina del porto in Italia o del 'Salvini cattivo'. In Italia no - ha avvertito il vice premier leghista -. "Una riflessione - ha quindi aggiunto -: tornano in mare davanti alla Libia le navi delle Ong, gli scafisti ricominciano i loro sporchi traffici, le persone tornano a morire. Ma il 'cattivo' sono io. Mah...". Intanto è dramma senza fine nelle acque libiche. Un altro barcone con 100 persone a bordo è stato segnalato questa mattina da Alarm Phone, il sistema di allerta telefonico utilizzato per segnalare imbarcazioni in difficoltà, a 60 miglia al largo delle coste di Misurata. Il natante, che inizialmente non aveva chiesto aiuto, starebbe ora imbarcando acqua con le persone nel panico. A bordo potrebbero esserci morti, tra cui forse anche un bambino.

Alle 10 di questa mattina - spiega Alarm Phone - siamo stati avvertiti di un'imbarcazione con 100 persone a bordo che stava tentando di attraversare il Mediterraneo. Alle 11 abbiamo ricevuto la loro prima posizione. Erano a 60 miglia al largo di Misurata (Libia), ma la situazione era calma. Alle 12:20 abbiamo ricevuto una nuova posizione. Erano a 12 miglia più a est e avevano problemi di navigazione. Un bambino è incosciente o morto. Chiedono aiuto, anche se questo potrebbe significare tornare in Libia. Abbiamo chiamato diverse volte i 6 diversi numeri della guardia costiera di Tripoli. Non sono raggiungibili. Ma esistono?", ha scritto Alarm Phone. "Abbiamo informato Malta e Italia e abbiamo ricevuto da Roma un settimo numero, ma anche questo non va. Al momento nessuna autorità ci ha confermato il coordinamento Sar".

E le polemiche interne riesplodono. Siamo alla tragicommedia delle parti. Che non fa i conti con ciò che sta avvenendo in Libia. Nei giorni scorsi A Tripoli sono ripresi gli scontri dopo settimane di silenzio in un momento nel quale il premier del Governo di accordo nazionale libico, Fayez al-Sarraj, appare sempre più debole mentre seppur lentamente il suo rivale, il generale Khalifa Haftar, rafforza le posizioni in Cirenaica e cerca di allargare la sua influenza nel sud occupando alcuni quartieri di Sebha. Sarraj è considerato dagli analisti locali sempre più in un angolo non solo per le pressioni esercitate dalle milizie non allineate, come la Settima brigata di Fanteria di Tarhuna, considerata una spina nel fianco e possibile alleata di Haftar, ma anche per le critiche mosse da alcuni membri del Consiglio di presidenza che denunciano la sua autoreferenzialità nella gestione del potere e in particolare delle nomine ministeriali.

Negli stessi giorni, Le forze armate di hanno scatenato una nuova operazione militare nella regione del Fezzan, nel sud della Libia. E' la seconda in pochi mesi. Le forze dell'uomo forte della Cirenaica sono arrivate alle porte della città di Sebha. Haftar ha dato ordine di prendere il controllo nella zona sud-ovest della Libia con il pretesto ufficiale di "tutelare la sicurezza dei residenti da terroristi e gruppi criminali". Inoltre, punta a mettere le mani sulle risorse strategiche nella regione come acqua, petrolio e gas. Il portavoce delle milizie di Haftar, Ahmed al-Mismari, ha precisato che le forze della Lna (Armata Nazionale Libica, ndr) si stanno "coordinando con le tribù di Sebha e i suoi leader". Secondo la Fezzan Libya Organisation, avrebbero preso il controllo delle basi aeree di Temhenhint e Brak al-Shati, "ma non sono ancora entrate a Sebha".

L'agenzia Askanews riferisce che Sebha, principale città nel Sud-Ovest della Libia, si trova circa a 200 chilometri a Est di Sharara, un grande giacimento petrolifero del Paese chiuso da oltre un mese per le proteste del cosiddetto "Movimento della rabbia del Fezzan", che ha chiesto più sicurezza e migliori servizi per il Sud del Paese. Il sito petrolifero è gestito da una joint venture, la Akakus, che riunisce la compagnia nazionale libica NOC, la spagnola Repsol, la francese Total, l'austriaca OMV e la norvegese Statoil. L'impianto produce un terzo della attuale produzione petrolifera della Libia, circa 315.000 barili al giorno, a fronte di una produzione media giornaliera di tutto il paese di un milione di barili. L'operazione militare, che sembra sia già cominciata, dovrebbe concentrarsi nel quadrante di Sebha. Tanto che gli abitanti locali sono stati invitati a stare lontani dalle aree di scontro. Secondo alcuni osservatori, in realtà l'uomo forte della Cirenaica cerca di approfittare delle difficoltà che si stanno nuovamente manifestando nel governo di Tripoli, quello "ufficialmente riconosciuto dalla comunità internazionale" ma sempre più debole. Petrolio e controllo dei migranti: la doppia arma di ricatto di Haftar. Prima destinataria: l'Italia. E tutto questo avviene mentre si consuma la crisi del governo Sarraj.

Cinque giorni fa, presidente del Consiglio libico è stato sfiduciato pubblicamente dai suoi tre vice, Ahmed Maiteeq – vicino alla potente milizia di Misurata - Fathi Magbari e Abdul Salam Kajman che lo hanno accusato di prendere decisioni senza il loro consenso e di non essere in grado di garantire la sicurezza e la stabilità del Paese. Un simile comportamento, secondo i tre firmatari, viola l'intesa alla base del Governo di accordo nazionale e del Consiglio presidenziale e mette a rischio la tenuta degli accordi Onu di Skirat del 17 dicembre 2015: firmata dai rappresentanti di Tobruk e Tripoli, l'intesa mirava alla creazione di un governo di unità nazionale. I vice hanno accusato il presidente al-Sarraj di aver portato il Paese sull'orlo di un nuovo scontro armato, avendo disatteso gli obiettivi degli accordi di Skirat come la lotta al terrorismo, all'immigrazione clandestina, oltre alla promozione di misure volte a migliorare la condizione dei cittadini libici e a favorire una pacifica transizione di poteri.

Secondo quanto scritto da Meitiq, Magbari e Kajman, il comportamento del presidente Sarraj è la causa dell'instabilità che ancora regna in Libia e dell'imminente crollo delle istituzioni, oltre che dalla frammentazione interna al Paese che risulta ancora impossibile da superare. Giovedì scorso, sempre i tre membri del Consiglio avevano invitato il governatore della Banca Centrale della Libia e il capo dell'Audit Bureau del Paese a non approvare la decisione di Serraj di nominare Suleiman Al-Shanti come capo della Autority per il Controllo Amministrativo. In questo caos totale, Roma continua in una linea che mostra sempre più un corto respiro: mediare sia con Serraj sia con Haftar. Ma se non terrà conto dei nuovi equilibri a Tripoli, rimarcano ad HuffPost analisti ed ex diplomatici profondi conoscitori della realtà libica, l'Italia rischia di restare di nuovo marginalizzata nel Paese, a tutto vantaggio delle potenze europee – la Francia – e regionali –Egitto – che puntano decisamente su Haftar e i suoi nuovi alleati.

D'altro canto, ricordano le fonti, è stato lo stesso Haftar, nel settembre scorso, a proporsi, al ministro degli Esteri italiano Enzo Moavero Milanesi, come Garante di un piano "partenze zero". Haftar è in grado di garantire un parziale controllo su quei territori attraverso l'alleanza con le tribù Tebu sempre pronte a proporsi, a seconda del momento, come controllori dei confini o di collaboratori dei trafficanti. Il generale punta a ottenere l'aiuto dell'Italia e dell'Europa per addestrare i Tebu, trasformarli nei guardiani delle frontiere e ridimensionare le tribù Tuareg nemiche sia dei Tebu che del generale in virtù dei loro solidi legami con i gruppi jihadisti. Ma tutto questo costa. E tanto. Venti miliardi di dollari per addestrare le sue forze e controllare i 4.000 chilometri di confine sud della Libia. Miliardi. E una scelta definitiva da parte di Roma: puntare definitivamente sull'ex ufficiale di Gheddafi, come il Gendarme delle frontiere esterne. Con buona pace del fantasma-Sarraj.

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