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Esteri

Il “neo-temporalismo” mediatico e antiamericano della Chiesa di Bergoglio

ASSOCIATED PRESS
ASSOCIATED PRESS 

In principio furono l'oro e incenso: come magi guidati dalla stella dell'audience, giornali e televisioni accorsero entusiasti al richiamo mediatico del nuovo papa, dispensando copiosi assensi e intonando gloriosi canti, lungo la scia crescente e nitida dello share, gravida di news e sorprese a ripetizione. Così, a nove mesi esatti dal conclave, Francesco fu rieletto dalla stampa, quasi per ulteriore, seconda gestazione. Uomo dell'anno. Unto e solennemente consacrato sulla cover patinata di Time, laica e postmoderna pala d'altare nel panteon secolare dei giorni nostri.

Poi gradualmente il sapore acre, pungente della mirra e il rumore stridente, graffiante dell'arme si sono insinuati tra le pieghe, e piaghe, dei reportage. Intervallando la luce all'ombra e annuvolando il cielo sopra la roccaforte del pontefice bairense, venuto in Urbe dai confini dell'Orbe. Dai non placet e dalle schermaglie procedurali dei due sinodi sulla famiglia, negli autunni 2014 - 2015, tra progressisti nordatlantici e conservatori afroasiatici, agli scontri apertis verbis fra dicasteri sul riordino delle finanze vaticane, culminati a primavera 2016 nel fuoco incrociato di comunicati al calor bianco delle due "Segreterie", di Stato e dell'Economia: liberisti anglofoni versus socialdemocratici teutoni. Opponendo mentalità e culture, nazionalità e nomenclature. Non già singoli contendenti, dall'australiano George Pell al tedesco Reinhard Marx (nomen omen), ma interi continenti. Senza precedenti e senza reticenze. Lasciando emergere in superficie, alla maniera di un iceberg, il sommerso delle resistenze alle riforme. O delle divergenze sulla loro attuazione. Da Vatileaks a "Vaticlash", lo definimmo su queste pagine aggiornando il neologismo.

Una epifania di esternazioni, dinamica e irrituale, dialettica e conflittuale, che ha de facto modificato e modernizzato, desacralizzato, in parte dissacrato e comunque laicizzato non solo il paesaggio ma il linguaggio dell'istituzione, ormai specializzato e uso a polemizzare, oltre che a pontificare. Omologandolo, in epoca di peronismo globale, alla comunicazione pubblica delle altre cancellerie mondiali e obbligando le strutture preposte ad adeguarsi.

Nel frattempo il cielo diventava progressivamente plumbeo, sino alle grandinate bibliche dell'annus horribilis 2018, dal Cile al Pennsylvania Report, e alla deflagrazione planetaria dello scandalo degli abusi sessuali, per "grandezza e dimensione" : termini entrambi geopolitici, utilizzati deliberatamente da Bergoglio, marcando l'upgrade nella percezione del fenomeno, da localizzato a epidemico.

Tempesta mediatica con raffiche di vento ad alzo zero, che il Papa non ha tuttavia stigmatizzato alla stregua di persecuzione o accanimento, ma elogiato al contrario in guisa di benedizione durante gli auguri di Natale alla curia romana, rivolgendo ai giornalisti un ringraziamento inatteso e promuovendoli al ruolo decisivo - da "Oscar" comprimario - di Natan il profeta, determinante affinché Davide comprendesse "la gravità del suo peccato".

Ripensamento copernicano di traiettoria e di obiettivo rispetto all'invettiva del Cardinale Angelo Sodano, che a beneficio aneddotico degli storici, dalla basilica – e balistica – di San Pietro, in un mattino uggioso di Pasqua 2010, tacciò sprezzante di "chiacchiericcio" gli accusatori, su piazza e in mondovisione, inavvertito e incurante del ciclone che già si profilava in orizzonte.

Occorre partire da qui per analizzare profondità e portata, proporzioni e proiezioni del big bang che ha ribaltato, e blindato, il sistema e organigramma informativo della Santa Sede nelle ultime settimane del 2018, registrando la scossa più intensa e cambiando ex abrupto, in extremis, i nomi degli attori.

Al di là di una dose di personalizzazione, del confronto e del racconto, che trattandosi di media diventa inevitabile, l'attenzione al profilo soggettivo dei protagonisti – peraltro professionisti assai noti, da Burke a Ruffini, da Tornielli a Vian - non deve oscurare o indurre a trascurare l'influenza, oggettiva e geopolitica, del contesto nel quale i fatti avvengono.

Bisogna dunque tornare indietro di un quinquennio, all'inizio del 2014, quando Antonio Spadaro, gesuita e direttore di Civiltà Cattolica (una sorta di San Giovanni doubleface, Battista ed Evangelista, che del Papa intuisce i pensieri e intercetta i sentieri, con rara e invidiata simbiosi, analogamente ai celebri casi di Wojtyla – Dziwisz e Ratzinger - Gänswein) unanimemente riconosciuto quale regista e autore del copione in scena, delineò in tre atti e altrettanti aggettivi, presentando un numero monografico di Limes, il percorso e decorso del pontificato: profetico, poliedrico, drammatico. Soave, fascinante, tonificante all'esordio: gradevole conseguentemente a ciascun palato, e prelato, che accorse volentieri ad osannarlo. Eppure dotato di un retrogusto amaro, che a poco a poco insorge, aumenta e prende consistente il sopravvento.

Oro, incenso e mirra. Se i primi due schiudevano una prospettiva politicamente vincente ed ecumenicamente avvolgente, la terza presagiva un esito polarizzato, aperto e incerto.

Come il tracciante di una contraerea, le dimissioni del portavoce vaticano Greg Burke, a mezzogiorno del 31 dicembre, oltre ad anticipare di 12 ore i botti della mezzanotte, hanno squarciato il velo di una cittadella in procinto di affrontare 12 mesi di bombardamento intensivo, pervasivo, dal summit sulla pedofilia di febbraio al sinodo sull'Amazzonia in autunno: appuntamenti che nella diversità di agenda risultano geograficamente convergenti e destinati ad estendere il fossato tra Bergoglio e l'emisfero dai cui proviene, accentuando l'ostilità e la divaricazione, oceanica, con gli Stati Uniti di Trump e, da oggi, con il Brasile identitario, liberista, individualista di Jair Bolsonario, davanti alla spinta egalitaria, solidarista, socialisteggiante di Francesco. Rendendo il Papa straniero in patria e inducendo un supporter della prima ora, il cardinale Walter Kasper, a rilevare un fumus e mostrar sentore di segni, e disegni, golpisti. A denominazione d'origine yankee.

Del resto il Vaticano è stato il primo a lanciare la propria "bomba carta" – effigie del cenacolo di scrittori creativi e manipolo di "guastatori" trasgressivi radunato intorno ai Gesuiti e coordinato dal neo-direttore dell'Osservatore Romano, Andrea Monda – e aprire le ostilità con una querelle filosofica. Una Pearl Harbour letteraria e attacco al cuore dell'America, portato da Civiltà Cattolica, nel luglio di due anni fa. Puntando l'indice, e obice, sul basamento e bastimento della "civil religion", la chiglia che dai Padri Pellegrini agli odierni predicatori televisivi sorregge orgogliosamente il naviglio degli States. Insomma non limitandosi a colpire i fondamentalisti, numerosi e diffusi nella fascia sconfinata del corn & cotton belt, ma i fondamenti stessi del cristianesimo made in USA, dove a differenza dell'Europa non sarebbe nemmeno ipotizzabile un presidente che si dichiari "laico" e separi la sfera spirituale, personale da quella istituzionale.

Gli editoriali e strali del magazine di Padre Spadaro, corroborati da imprimatur papale, lungi dall'arrestarsi al fortino della Casa Bianca e alla figura del commander-in-chief hanno preso altresì di mira il bunker della Federal Reserve e il comandamento principe, "In God we trust", fieramente stampigliato sul biglietto verde. Additandovi l'equivoco di "una problematica fusione tra religione e Stato, tra fede e politica, tra valori religiosi ed economia".

Cordone ombelicale che Francesco intende recidere mollando gli ormeggi del legame privilegiato con l'Occidente, ritenuto d'ostacolo all'universalismo a 360° e veleggiando spedito, libero da zavorre, alla volta dell'abbraccio con l'Oriente. Quello estremo. In altre parole Civiltà Cattolica versus civiltà cristiana, così come almeno l'abbiamo finora intesa, con il suo corollario di cultura, struttura e architettura.

Difficile se non impossibile, a rigor di logica e logistica, che un cultural warrior del Missouri quale Burke, comunicatore vivace ma difensore tenace in stile ratzingeriano dei valori non negoziabili, numerario dell'Opus Dei e reporter della conservatrice Fox News - ossia un marinaio abilitato a servire sulla barca di Pietro e le riverboat, i battelli fluviali dell'America profonda -, nel momento in cui le flotte si separano e con esse la direttrice di navigazione, potesse rimanere sull'albero maestro e fungere da vedetta o "vedette" del nuovo corso.

Difficile, quanto meno improbabile, in termini sinergici e gerarchici, che uno spin doctor entrato nel palazzo dai piani alti, nel 2012, e abituato a concepire la Sala Stampa come un pied-à-terre della Terza Loggia, centrale operativa e stanza dei bottoni delle strategie informative, potesse assecondare il riposizionamento - ridimensionamento che tende invece a convertirla, sostanzialmente, in dependance e ufficio del Dicastero della Comunicazione, nonostante la subordinazione formale alla Segreteria di Stato, testé ribadita negli statuti.

Una doppia incompatibilità, geopolitica e giurispubblicistica, che discende dal mutamento in atto nella collocazione internazionale e nella costituzione materiale della Sede Apostolica: in virtù o vizio del quale il press agent di qualunque leader, a prescindere dalla dinamica dei rapporti personali e professionali con l'inner circle, avrebbe coscientemente, coscienziosamente rimesso il mandato.

A 90 anni dai Patti Lateranensi e dall'epilogo della Questione Romana, richiamato nel recente discorso al Corpo Diplomatico, Francesco, pontefice non solo "sociale" bensì "social", papa del web e della globalizzazione, opera un ulteriore strappo evolutivo nel processo di affrancamento dal limes, e limite, delle frontiere territoriali, sulla scia di Giovanni Paolo II, artefice supremo dell'ascesa geopolitica e trasformazione della Chiesa in superpotenza, etica e mediatica.

Il papato, nel rinnegare millesettecento anni di costantinismo e alleanze privilegiate fra trono e altare, non abolisce a ben vedere il potere temporale. Piuttosto lo sostituisce.

Non è azzardato parlare a riguardo di "neotemporalismo", seppure di tipo inedito, mediatico appunto, che occupa il suolo virtuale dell'immaginario collettivo e agisce nell'universo parallelo, elettivo delle comunicazioni di massa, esercitandovi la più alta leadership morale della nostra epoca e proiettandovi la propria vocazione - dimensione imperiale.

Primato e impero che in effetti al debutto del pontificato argentino hanno trionfalmente rinnovato i fasti wojtyliani, ma subiscono adesso un brusco, inimmaginabile ripiego.

Di conseguenza, nel momento in cui arretra perdendo colpi ad Occidente, da Washington a Rio, e non avanza quanto vorrebbe in Oriente, da Pechino a Shangai, Francesco valorizza e riscopre la "terra di mezzo" e retroterra strategico dell'Italia. Non a caso il riassetto gratifica il Belpaese con un en plein, nel dispiegare ai vertici un quadrilatero monocolore, neodemocristiano, con ascendente di Prima e Seconda Repubblica in luogo che Terza, se con annotazione complementare guardiamo al pedigree e genesi culturale dei prescelti: dal "ministro" Paolo Ruffini al portavoce ad interim, Alessandro Gisotti, ai due Andrea, Tornielli e Monda, preposti rispettivamente alle direzioni editoriale e dell'Osservatore.

Come se agli occhi del Successore di Pietro l'internazionalizzazione della curia non apparisse più in automatico, di per sé, sinonimo e sintomo di universalismo, ma rivelasse l'insidia di un rigurgito localista o, subdolamente, l'impronta di un colonialismo ideologico. E il presente dell'Italia, in aggiunta, non venisse da lui giudicato pragmaticamente altrettanto affidabile del passato, remoto e prossimo.

Sullo sfondo si staglia uno standard di comunicazione vaticana che afferisce direttamente al Papa e non rappresenta più ormai un'appendice ma una centrale, in nuce, di politica estera, integrativa e potenzialmente alternativa, giocando all'occorrenza in funzione di anticipo sulla Segreteria di Stato. Fuori dal circuito di cui Navarro Valls, al netto di una personalità straripante – seppe e volle mantenersi all'interno. Ma era un altro pianeta, lontano anni luce dal mondo, e modulo, globalizzato e digitalizzato, concitato e improvvisato, populista e interventista, dei tweet e delle svolte dettate al volo, in 140 battute, del XXI secolo.

Un approccio estemporaneo e fulminante, che non promana in questa fase dal dicastero, alle prese con la riorganizzazione della struttura, troppo pesante per un decollo rapido e impegnata, diremmo in gergo calcistico, nell'armonizzazione propositiva della manovra e cura della interdizione difensiva, con mansioni di copertura, contenimento e filtro a centrocampo.

E' su altro piano, segnatamente, che la diplomazia volante di Francesco si esprime istintiva, con attitudine preferenziale. A mezz'aria, nella zona franca dell'aereo papale. Sospeso tra ufficiosità e ufficialità, dove il dialogo con i giornalisti slaccia le cinture, si fa talk show, a tratti show down. Agendo sulla cloche e correggendo la rotta, con apparente nonchalance e impreviste, robuste virate: dalla scomunica di Trump, pronunciata nei cieli del Messico ("Chi pensa soltanto a fare muri non è cristiano"), alla revisione in senso confederale, vagamente sovranista, della dottrina europea del Vaticano, nel giugno 2016, all'indomani del referendum britannico, invocando una "sana disunione ... cioè dare più indipendenza, più libertà ... pensare un'altra forma di unione".

Bergoglio per concludere configura egli stesso in prima persona un'App innovativa, energizzante ma destabilizzante. Al pari della Civiltà Cattolica di Antonio Spadaro, assurta verosimilmente allo status, virtuosamente ambiguo, di Foreign Affairs d'Oltretevere, autorizzato ai lanci lunghi, verso il Far East e West, e ai calci d'angolo, recapitati nel cortile casalingo, e area di rigore, del governo gialloverde, come il manifesto fresco di stampa di un popolarismo rigenerato, in sette punti, da opporre ai populismi ruggenti, nel centenario dell'appello di Don Sturzo.

Eletto con il mandato di riformare l'hardware curiale, Francesco ha nel mentre ritinteggiato il paesaggio, introducendo un nuovo software e rivoluzionando il linguaggio del papato. Un cambiamento che ancora una volta risponde all'indole complessa e duplice del suo mentore, francescanamente libertario, anarchico e gesuiticamente autoritario, gerarchico, accentrando le risorse in un corpus organico, unitario, ma riservando a sé, insofferente delle mediazioni e indifferente alle reazioni, lo spazio che conta, quello dell'anima, nell'immenso duty free di una comunicazione diretta e "politicamente scorretta", creativa e impulsiva, ergo imprevedibile, sperimentale e a tratti umorale tra i leader del pianeta, nessuno escluso, dove saltano via, in rapida successione, pedaggi dovuti e passaggi obbligati, consuetudini obsolete e latitudini proibite, schemi a distanza e sistemi di alleanza.

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