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Politica

Nel Governo qualcosa si è rotto. Politicamente. Umanamente

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Per la prima volta qualcosa si è rotto, di profondo. Politicamente. Umanamente, nel rapporto tra Salvini e Di Maio, il vero collante che finora ha consentito di tenere sotto controllo anche il gioco pericoloso di una campagna elettorale sulla pelle del governo, come se i due partiti fossero maggioranza e opposizione. Perché stavolta c'è l'atto. Ostile. L'incidente, consapevolmente causato. Suonato come "una dichiarazione di guerra". Sono irriferibili le frasi del leader della Lega quando apprende dalle agenzie la notizia che sono state ritirate, come atto unilaterale del ministro Toninelli, le deleghe ad Armando Siri, due ore dopo che è uscita la notizia dell'indagine che lo coinvolge: "Così non si va avanti" è la più potabile da trascrivere.

Logica, prassi, buonsenso, modalità di rapporto tra alleati avrebbe imposto un "confronto" prima di ogni scelta: di notizia di indagine si tratta, non di un arresto, su un sottosegretario che si dice estraneo e chiede di essere ricevuto immediatamente dai giudici per chiarire. Al netto di come andrà a finire, è una vicenda solo all'inizio, meritevole di approfondimento. Invece anche il presidente del Consiglio ha appreso del blitz del suo partito su Siri a cose fatte, non solo Salvini. E, a cose fatte, ha annunciato una valutazione e un chiarimento, come se fosse – ed effettivamente tale è – uno spettatore e non un attore. È stato un attacco a freddo, la prima vera frattura politica che porta il governo in una zona fuori controllo: notizia sull'indagine, richiesta di dimissioni, ritiro delle deleghe, senza neanche una telefonata, in un clima in cui nelle dichiarazioni dei big dei Cinque Stelle veniva presentato come specie di Al Capone.

È un evidente salto di qualità, in questa settimana della grande turbolenza giudiziaria che, come spesso accade, sta dettando i tempi dell'agenda politica, dal caso Marini fino all'annunciato (a questo punto) nuovo caso Raggi. Un salto di qualità che, in questo caso, porta il governo in una terra incognita. Tav, Cina, castrazione chimica, flat tax, congresso sulle famiglie a Verona, immigrazione, pure le polemiche sull'Olocausto: "Finora – spiegano fonti leghiste degne di questo nome – stavamo nell'ambito della campagna elettorale. Ora è guerra". La verità è stavolta l'esasperazione va oltre le battute, lo spin, la spregiudicatezza di una corda tirata fino al punto massimo evitando che si strappi, per esigenze di consenso. Il governo, dicevamo, è entrato in una zona fuori controllo, in un clima di ostilità e intolleranza reciproca, quasi da pre-crisi. È questa l'aria che si è respirata al cdm, al termine del quale, quella frase "così non si va avanti" l'hanno pronunciata in molti.

Per Salvini l'episodio rende impossibile il far finta di niente, chiudere la parentesi e andare avanti come se nulla fosse. Lo schema del contratto tra alleati è franato da tempo, quello da avversari che mantengono una cornice comune pure, adesso i due partiti si muovono da nemici, dove a azione ostile, ne corrisponde una uguale e contraria. Come l'immediata richiesta di dimissioni della Raggi, a seguito dello scoop dell'Espresso sulle sue pressioni del sindaco sul dirigente dell'Ama che poi sarebbe stato licenziato in tronco, colpo durissimo per i Cinque Stelle. Che, di qui a breve, li metterà di nuovo di fronte al tema della coerenza o della consueta doppia morale, per cui, di fronte a una indagine altrui si sventola il cappio, di fronte alla propria si scopre il garantismo.

È impressionante il gioco di spifferi e guerriglia comunicativa della giornata, con lo staff pentastellato attorno a Siri, come se fosse un pregiudicato che vuole rimanere attaccato ai banchi del governo. E quelli leghisti sullo sciacallaggio dell'alleato, il cui comportamento non si spiega con le logiche della politica, se uno non ha messo in conto le conseguenze più estreme: "Questi sono dei matti", "questa è gente pericolosa".

Quello dei Cinque Stelle è un attacco al cuore del salvinismo. Al cuore. Perché Armando Siri, non è uno dei tanti. È l'ideologo del nuovo corso, dello scetticismo nei confronti dell'Unione Europea, della tessitura dei rapporti con Bannon e del nuovo corso fiscale, incentrato sulla Flat Tax. Insomma, uno degli uomini di punta della nuova Lega, mal digerito anche all'interno dalla triade Giorgetti-Bitonci-Garavaglia che si è sentita scippata della titolarità del dossier economico. Ed è impossibile far finta di niente perché la vicenda è tutt'altro che chiusa. Siri non alcuna intenzione di dimettersi, perché Salvini gli ha chiesto di restare fermo dove è. E nel corso del più drammatico cdm di questa legislatura, ha chiesto che gli venissero riattribuirgli le deleghe.

È chiaro che il governo non cadrà su Siri, il cui destino è appeso, innanzitutto agli sviluppi dell'inchiesta, ma è evidente che siamo di fronte al più classico dei "volta-pagina". Raramente, all'interno della Lega, il tema del ritorno al voto, nella finestra di ottobre, è entrato così prepotentemente nelle riunioni di giornata. Definire "governo" questa dinamica è ormai azzardato, anche definirla campagna elettorale è ardito. I leghisti dicono che "siamo alla pazzia". Se lo dicono loro, la definizione va presa per buona.

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